Capitolo 51
Roma, 3 gennaio. 18:30.
Al calare del buio, piazza Navona era un brulicare di gente. C’erano colletti bianchi che tornavano verso casa, artisti di strada, commercianti intenti a vendere qualunque tipo di souvenir, mendicanti, musicisti e, ovviamente, turisti di ogni nazionalità. L’aria fredda della sera era satura di odori di cibo dei ristoranti e di suoni indistinti. A un orecchio più allenato, invece, non sarebbe stato difficile distinguere, in lontananza, il rintocco di una campana o il clacson di un’auto.
Cassini serrò gli occhi per un istante. Era affacciato a una finestra sul lato sud della piazza, in un palazzo di quattro piani che – gli avevano spiegato – era di proprietà dello sceicco. Da quello che aveva potuto vedere, davvero una reggia degna di un principe.
Al loro arrivo alla stazione Termini avevano trovato una Mercedes che li aveva accompagnati direttamente lì. L’autista, un romano di mezza età, completo blu impeccabile, aveva salutato Julia come se fosse una vecchia amica. Poi, in silenzio, aveva guidato l’auto nel traffico romano. Il professore era stato alloggiato in una delle camere degli ospiti, affacciata su piazza Navona e grande come metà del suo appartamento di Posillipo. Era arredata con mobili d’epoca e grandi quadri con cornici dorate che arricchivano le pareti. Accanto alla porta c’era una scultura di marmo, una Venere sdraiata su un soffice giaciglio, con in mano una piccola mela. Accanto, faceva bella mostra di sé un’imponente libreria a muro che arrivava fino al soffitto.
«Passeremo la notte qui», gli aveva comunicato la donna mentre apriva la porta. «Sarai al sicuro. Domani andremo in Vaticano. Poi sarai libero di andartene».
«Perché?… prima di domani non sono libero di andarmene?», aveva domandato, con tono volutamente provocatorio.
Anche Julia, quella volta, gli aveva sorriso. Un sorriso tranquillo, affabile. Il suo viso, adesso che si sentiva definitivamente al sicuro, si era rilassato e, se possibile, sembrava ancora più armonioso.
«Certo che sei libero di andartene», aveva mentito. «Se vuoi sopravvivere, però, ti consiglio di starmi vicino…».
Prima di entrare in camera si era fermato nel corridoio, per distrarsi, e aveva notato una teca antica accanto alla finestra. Era chiusa a chiave ma all’interno si vedevano alcune pergamene, spille con strane croci e un mantello nero lucente con l’interno rosso. A una prima occhiata avrebbe detto che si trattava del simbolo dei Cavalieri di Malta; tesi confermata da una delle lettere, indirizzata a un non meglio precisato “Cavaliere Guardiano di Pace e gentile Dama” e firmata con un eloquente “Cancelleria Magistrale CCC Knights of Malta OSJ”.
Dopo qualche minuto si era chiuso in camera, pensieroso. Aveva scostato la pesante tenda e adesso stava con lo sguardo posato sull’unico pittore che aveva osato sfidare il freddo della sera per dipingere la fontana di piazza Navona. Dalla sua posizione era troppo lontano per poter valutare l’opera, ma a giudicare dal numero di turisti che accerchiavano l’artista, doveva essere di un qualche interesse.
Per un secondo chiuse gli occhi e senza volerlo, la mente andò a un altro quadro, quello dal quale tutto era cominciato: la Primavera del Botticelli. In treno, Julia gli aveva dato qualche spiegazione sui motivi che li avevano spinti a incontrarlo in Francia. Nulla però che avesse chiarito definitivamente i suoi dubbi.
Per la verità, le poche informazioni che era riuscito a carpire da quella conversazione, non erano neppure nuove: la maggior parte erano sue supposizioni che la donna si era semplicemente limitata a confermare. Si toccò i pantaloni e trovò l’email stampata che aveva portato con sé da Parigi. La osservò ancora una volta. In corrispondenza delle dita dei personaggi del quadro c’erano una serie di numeri scritti con il computer: 1, 4, 1000, 300, 10, 9 e 3. Le figure del dipinto si notavano appena, e la loro silhouette risultava marcata di nero, come se qualcuno avesse voluto evidenziarne i contorni.
Cosa significava quel quadro? Perché Julia e i suoi l’avevano spedita proprio a lui?
Cassini alzò lo sguardo e tornò a scrutare la piazza. Poi, improvvisamente, ebbe un’illuminazione. Tornò a osservare la stampa dell’email, concentrandosi solo sui personaggi e sugli altri appunti aggiunti con il computer.
Come aveva fatto a non notarlo prima?
Si strofinò gli occhi e la osservò di nuovo. Il foglio di carta era stropicciato, ma le immagini si vedevano chiaramente.
Era davvero possibile?
Cercò di focalizzare la sua attenzione solo sugli elementi che gli interessavano, provando a ricordare l’immagine esatta che gli era tornata alla mente.
Andò a una scrivania e con foga cercò una penna. La trovò e riportò il foglio alla luce della lampada da tavolo.
Poi cominciò a tracciare delle linee rette sul foglio. Si fermò una prima volta e poi una seconda, e infine le linee si trasformarono in triangoli. Depose la penna ed eccitato osservò il risultato:
Era incredibile, i triangoli erano davanti a lui, identici al bracciale di Meredith. Inspiegabilmente, pur non avendo una memoria fotografica, riusciva a ricordarli alla perfezione.
Ma cosa significavano?
Decise che era il momento di scoprirlo: quei disegni geometrici erano stampati nella sua mente e non riusciva a comprenderne il perché. C’era una sola persona che poteva spiegarglielo.
Uscì dalla camera e si diresse verso la stanza di Julia. Bussò con veemenza, deciso a ottenere tutte le risposte.
La porta si aprì, ma improvvisamente ogni proposito di conoscenza scomparve.
Julia lo accolse sulla porta con una sottoveste di raso, i capelli bagnati e un sorriso sulle labbra.
«Speravo che venissi», gli sussurrò con voce suadente. Poi gli prese la mano e lo invitò a entrare.