Capitolo 41
Milano, 3 gennaio. 9:00.
La mattina successiva, un taxi si fermò all’ombra della Tribuna bramantesca. Era una tipica giornata invernale, con aria gelida e un sole slavato che galleggiava timido in un cielo color latte.
«Grazie», sussurrò Manuel Cassini rivolto all’autista, un indiano che durante il breve tragitto dall’hotel non aveva smesso un secondo di parlare. Poi scese dall’auto e fatti pochi passi si trovò in piazza Santa Maria delle Grazie.
Il ricordo della sua visione sul tram era estremamente chiaro, come se quell’evento fosse avvenuto il giorno precedente. O forse era stato davvero così… almeno per i suoi neuroni.
A distanza di molte ore dalla sua scoperta faticava ancora a crederci: nella sua mente c’erano ricordi di altre persone.
La notizia positiva, se poteva ritenerla tale, era che il suo cervello stava lentamente metabolizzando quelle visioni. Ogni ora che trascorreva, ogni minuto che passava riflettendo su quanto aveva appreso, lo avvicinavano sempre di più alla verità: i flashback erano sempre più completi, chiari e precisi. E purtroppo confermavano quella storia assurda.
Adesso sapeva cosa gli era successo e come era accaduto: per quanto ritenesse folle l’idea, qualcuno aveva impresso nella sua mente dei ricordi altrui. La domanda che continuava a porsi era però sempre la stessa: perché?
Perché a lui?
Perché a sua insaputa?
Soprattutto, a quale scopo?
Era evidente che l’arte rinascimentale e la sua conoscenza di Dante dovevano essere state determinanti. Da quanto riusciva a estrapolare dai suoi flashback, prima di lui si erano sottoposti a quell’esperimento sia monsignor Claude de Beaumont che Andrea Cavalli Gigli. Erano due grandi esperti d’arte ed entrambi erano morti. Il sovrintendente si era sottoposto alla procedura consapevolmente, aveva perfino firmato un contratto. Perché invece la sua sorte era stata differente? Perché era stato drogato prima di quella bizzarra sperimentazione?
Il segreto dei pittori maledetti, il libro che alcuni anni prima aveva curato insieme al monsignore e al soprintendente, doveva essere parte del problema. E forse, allora, gli argomenti affrontati in quel saggio potevano aiutarlo a risolvere il mistero.
Cercò di riflettere sul suo ruolo nella stesura del libro: non era un esperto d’arte come gli altri due, ma la sua grande conoscenza di Dante era stata determinante.
Il fatto che fosse stato convocato con un’email raffigurante la Primavera di Botticelli non era casuale. Così come non lo era il luogo dell’appuntamento: davanti alla Gioconda. Se voleva proseguire in quella direzione non era un caso neppure che si trovasse lì a Milano: un altro esempio di arte allegorica era proprio l’Ultima Cena di Leonardo da Vinci.
L’idea espressa nel libro che i pittori del Cinquecento condividessero con Dante un qualche tipo di messaggio occulto poteva essere una ragione plausibile.
In ogni caso, chiunque fossero i mandanti, non avevano considerato un dettaglio rilevante: il libro non aveva dato una spiegazione al dilemma. Se c’era un qualche messaggio nascosto, qualche segreto celato che magari ossessionava Botticelli, lui e gli altri due autori non l’avevano trovato.
E Meredith, in tutta quella vicenda cosa c’entrava? La sua aguzzina era certamente lei, il flashback nel quale gli applicava quegli strani microchip era sempre più chiaro e netto: il braccialetto, che ormai aveva imparato a conoscere, luccicava nel buio.
«Il mio hotel dovrebbe avermi prenotato un ingresso. A nome Cassini», annunciò alla donna alla biglietteria del Cenacolo.
«Otto euro».
Il professore pagò e si infilò nella piccola sala d’attesa, un corridoio stretto e lungo con il soffitto a volta. Dietro di loro c’era una grata in ferro che si affacciava su un chiosco e alcuni cartelli illustrativi raccontavano la travagliata storia dell’affresco: realizzato con una tecnica assolutamente innovativa per l’epoca ma che lo rendeva estremamente delicato.
In quel momento un addetto aprì il cancello e li invitò a entrare. Voltato l’angolo assieme a un gruppetto di persone si trovò sotto il porticato affacciato sul cosiddetto chiosco grande: un giardino verde con vasi di fiori, siepi e qualche piccolo albero.
«Vi ricordo che non è consentito fare fotografie e video», proclamò il giovanotto.
Superate due anticamere, il gruppo entrò in quello che era stato il refettorio del convento: era una sala stretta e lunga, ancora più fredda delle precedenti e avvolta nella penombra. Sulla sinistra c’era la Crocefissione di Donato Montorfano mentre l’Ultima Cena, illuminata da una luce giallognola, era sulla parete opposta.
Cassini si avvicinò. Nelle immediate vicinanze dell’opera di Leonardo erano sistemate sei panche, tre da un lato e tre dall’altro.
«Fu Antonio de Beatis, già nel 1517, a testimoniare che l’affresco “si incomincia a guastare”». Le parole di una guida, alle sue spalle, echeggiarono nell’aria.
Il professore cercò di concentrarsi sulla figura di Gesù e sugli apostoli, nella speranza che a quella vista qualcosa, nella sua mente, si mettesse in moto.
Rimase con gli occhi fissi sul pane di Gesù, appoggiato sul bordo del tavolo della cena. Poi osservò i volti di Tommaso e Giovanni ai lati di Cristo. Niente. Nessun ricordo. Nessuna visione.
Cassini si assestò sulla panca e fece scorrere lo sguardo altrove, prima sul soffitto e poi sulle pareti. Quella di destra era completamente bianca, probabilmente ricostruita dopo il crollo del ’43. La parete opposta invece era come al tempo di Leonardo: le alte finestre erano contornate da greche verdi, rosse e arancioni che riprendevano le stesse tonalità cromatiche degli affreschi della cattedrale. Non c’era certezza sull’autore, ma con ogni probabilità doveva essere stato lo stesso Montorfano.
Improvvisamente si udì un tonfo, in lontananza. Il professore si irrigidì e subito dopo si voltò. Due addetti erano scattati in piedi e si stavano dirigendo velocemente verso l’uscita.
Cassini deglutì. Attese qualche secondo, gli occhi fissi sulla porta. Poi, non vedendo arrivare nessuno, si convinse che qualunque cosa fosse successa, non lo riguardasse.
Scosse la testa e tornò ad ascoltare le parole della guida: «…Nel 1652 i Padri Domenicani decisero di ampliare la porta che si affacciava sulle cucine del refettorio, per facilitare l’ingresso. Tagliarono così dall’affresco i piedi di Gesù che scomparvero per sempre dal dipinto…».
Senza alcun preavviso, quelle parole e ogni altro sussurro sprofondarono nel silenzio. Davanti ai suoi occhi comparve un’immagine, chiara e precisa: adesso il refettorio era completamente vuoto.
I turisti erano scomparsi in un solo istante. Tutti tranne un uomo, immobile nella penombra con gli occhi sull’affresco.