Capitolo 91

 

 

 

 

 

Candida rosa, 6 febbraio. 15:50.

 

«Ci siamo!», esclamò Eklöf dall’interno dello scavo. Era in piedi su una grande lastra di basalto nera, nel punto in cui il terreno era stato rimosso. Nella zona più vicina al costone dell’anfiteatro era visibile la fenditura buia, aperta spostando i massi a uno a uno: aveva la forma di un grande occhio ed era abbastanza grande da permettere a una persona di entrarci comodamente.

Accanto al finlandese, con indosso un’imbragatura da speleologo e un caschetto protettivo, c’erano Cassini e il Toro, pronti a calarsi nell’anfratto.

«Forza allora, scendiamo», ingiunse l’emissario dei cavalieri di Malta, strofinandosi i guanti sui pantaloni. Poi fissò il professore, in cerca di segni di eccitazione. Ma non ne vide, la sua faccia era una maschera di paura. «È il momento della verità».

«Le rocce potrebbero essere friabili», li avvisò Hólmar Bjarnason, dall’alto, osservando il buco nero nel terreno.

«Ne abbiamo già parlato», tagliò corto il Toro. «Si tratta di una discesa di pochi metri. Ci vuole molto meno a farlo che a dirlo».

Il geologo annuì, poco convinto. «Fate attenzione. Questa zona è molto pericolosa, è probabile ci siano altre fenditure o cavità non rilevate dai georadar…».

Nel frattempo, una scala di corda fu fissata al supporto dell’escavatore e fu gettata all’interno dell’anfratto. Non ci fu alcuna eco e la circostanza confermò che doveva trattarsi di una stanza abbastanza piccola, alta non più di due metri.

Il primo a scendere fu Manuel Cassini, titubante. Quel tipo di attività non era da lui. Non si era mai dovuto confrontare con situazioni simili. Un conto era riflettere sulle terzine di Dante a tavolino, senza fretta, un altro era trovarsi sul campo. E in più con quattro militari che gli puntavano addosso fucili d’assalto.

Mentre scendeva i gradini di corda, stando attento a non appoggiarsi agli spuntoni di roccia affilata, si domandò cosa sarebbe successo di lì a pochi minuti. Se avessero trovato il tesoro, cosa sarebbe accaduto? Li avrebbero uccisi tutti e sarebbero scappati con il Graal?

«Cosa vede?», domandò il Toro, anche lui pronto a scendere nella fenditura.

Cassini fece ancora qualche gradino, incerto nei movimenti e con il sudore che nonostante il freddo gli annebbiava la vista.

La luce del caschetto illuminava un muro completamente nero e un rivolo di acqua che scorreva lungo la parete.

Un gradino dopo l’altro raggiunse un punto più basso. Mise uno scarpone su un appoggio che gli sembrò stabile e lasciò la corda, sempre sorretto dalla fune d’emergenza. Quando il piede scivolò sulla roccia bagnata Cassini si sentì cadere nel vuoto.

Provò ad aggrapparsi con la mano alla scala e poi al supporto di sicurezza ma non ci riuscì. Ruzzolò all’indietro sul terreno inclinato cercando di mantenere l’equilibrio, ma dopo alcuni passi incerti finì con la schiena contro un blocco di basalto.

Emise un rantolio per il dolore e pochi istanti dopo si ritrovò seduto, con il sedere immerso nell’acqua e il casco appoggiato a una parete gelata.

«Cosa succede?», chiese il Toro, che aveva cominciato a scendere e aveva sentito il lamento del professore.

Cassini non rispose ma nel frattempo il sudamericano era arrivato all’interno della grotta. Nonostante la sua massa muscolosa era molto agile.

Si voltò lentamente facendo luce con la lampada del suo casco. La stanza era effettivamente molto piccola e umida, il soffitto più basso da un lato e irregolare dall’altro. Sulla sinistra c’era una parete di pietra dalla quale si vedevano alcune sporgenze bagnate. Nella parte bassa scorreva un corso d’acqua largo una cinquantina di centimetri.

«Ha trovato qualcosa?», bisbigliò, illuminandolo con la torcia.

Il professore era seduto a tre metri da lui e si guardava intorno agitando la sua lampada come un occhio di bue. «Guardi lei stesso».

 

Nigel Sforza era sdraiato sulla neve con un fucile mitragliatore puntato contro.

«Uccidilo!», ordinò qualcuno alla radio.

Il militare indugiò, per nulla convinto. E quell’esitazione permise all’ispettore di sferrargli un calcio nelle parti basse.

L’uomo vacillò e si irrigidì. Ma non si spostò neppure di un passo.

Con un colpo di reni, Sforza cercò di scattare in piedi, spostandosi di lato e tirando verso il terreno la canna del fucile mitragliatore. Cercò di strattonarlo tenendo con una mano il mirino e con l’altra il caricatore. La manovra durò solo una frazione di secondi, ma sufficiente a ottenere ciò che desiderava.

Il militare, forse dolorante per il colpo subito, inciampò nella neve fresca e senza sapere come si trovò sdraiato a pancia in sotto.

Sforza gli saltò addosso, cercando di immobilizzargli le braccia con le sue ginocchia. Con una manata gli piantò la testa nella neve, premendo con tutta la forza che aveva in corpo.

Ma la situazione di vantaggio durò solo un istante. L’uomo era più forte e allenato dell’ispettore, rotolò su se stesso, disarcionando Sforza che finì di nuovo supino.

Il militare scattò in piedi, intontito come se avesse messo la testa sott’acqua, e lo guardò in cagnesco. Inspirò e premette il grilletto, viola di rabbia per il colpo subito.

Ma non successe nulla. L’M4 non sparò.

Stupito, il mercenario fissò prima il fucile e poi Sforza.

L’ispettore gli sorrise: aveva la sua pistola in una mano e il caricatore del mitra nell’altra.

 

«Guardi lei stesso», bisbigliò Cassini, illuminando davanti a sé con la luce del caschetto.

Il Toro si guardò intorno. Quella stanza non aveva nulla di artificiale. Era poco più di una caverna, di forma più o meno regolare ma senza alcun evidente intervento umano.

«Qui non c’è nulla!», constatò, facendo guizzare nervosamente la luce in tutte le direzioni.

Si spostò di qualche passo e perlustrò tutti i costoni basaltici. Non c’erano altre fenditure o altri buchi, o almeno non erano visibili. «Ci deve essere un’altra apertura!».

Cassini non rispose ma dopo qualche secondo cominciò a ridere. Una risata nervosa, che da sommessa si trasformò in un gorgoglio sguaiato. Si era sbagliato. Di nuovo.

Il Toro girò su se stesso come una trottola.

Non convinto, rifece da capo il giro della caverna. In pochi passi terminò di esaminare tutte le pareti rocciose.

«Ho commesso un errore!», sospirò Cassini, scuotendo la testa. «Questa volta ho fatto un grosso errore».

«Non è possibile, ci deve essere qualcosa…», continuò il Toro. Ma più girava a vuoto brandendo la lampada, più si sentiva sollevato. Lì non c’era nulla da trovare. Esattamente ciò che si era augurato. Se i papiri esistevano realmente, non erano in quella caverna.

Improvvisamente si rasserenò. I piani che l’avrebbero costretto a uccidere tutti i componenti della spedizione si dissolsero in un istante. Esattamente come i pensieri bui che avevano infestato la sua mente per giorni.

«Mi sono sbagliato di nuovo», bisbigliò ancora Cassini, che si aggrappò alla corda di sostegno e poi alla parete per sollevarsi.

Il Toro gli si avvicinò e lo fissò in silenzio, lo sguardo indagatore.

Il professore si domandò se gli avrebbe sparato lì, seduta stante.

Ma invece non accadde nulla di tutto ciò. Il gigante lo aiutò ad alzarsi e gli dette una amichevole pacca sulla spalla. «Andiamocene, qui è tremendamente umido», disse con un filo di voce.

Cassini rimase interdetto. Alla luce bianca della sua torcia, quell’uomo sembrava fatto di cera, ma nel suo viso c’era un sorriso che non riusciva a spiegarsi.

Il sudamericano sorresse il professore e lo accompagnò accanto alla scaletta. Tirò due volte la fune di sicurezza, il segnale per i suoi uomini. Quando la corda cominciò a salire lo aiutò ad aggrapparvisi. In pochi istanti, entrambi riemersero alla luce accecante del giorno.

I militari sul bordo dello scavo avevano uno sguardo interrogativo sui volti.

“Allora?”, sembravano voler dire.

Il Toro si liberò dell’imbragatura in silenzio e poi guardò in alto, schermandosi dal sole con la mano. «È tutto finito, ce ne andiamo!», urlò con voce gutturale. «Il nostro professore si è sbagliato. Per fortuna».

Cassini lo fissò, cupo. Era come intontito, la testa gli girava. Un turbine di emozioni lo pervase ma, nonostante ciò, il significato delle parole appena pronunciate dall’uomo che li aveva tenuti in ostaggio gli fu subito chiaro.

«Per fortuna», aveva detto.

In altre circostanze, forse si sarebbe giustificato in qualche modo, avrebbe chiarito che la colpa non era sua. Ma non lo fece. Non disse niente e, a giudicare dal comportamento del Toro, fu molto meglio così.

Si limitò ad alzare la testa in cerca di Julia. Quando incrociò il suo sguardo, lei gli sorrise. E lui si sentì subito meglio, senza neppure capirne la ragione.

In quel momento una radio gracchiò. «Dal campo base. C’è un problema», intervenne uno dei militari con la ricetrasmittente in mano. Scese di qualche passo sul terreno scosceso e la porse al Toro.

«Cosa c’è ancora?», grugnì lui, afferrando il walkie-talkie.

«È appena passato un elicottero», rispose dalla radio il mercenario che era rimasto di guardia. «A volo radente!».

Il Toro non rispose immediatamente. Fissò la ricetrasmittente e poi si voltò verso lo scavo. A quel punto sorrise tra sé scuotendo la testa. «Ok. Qui non abbiamo più nulla da fare», concluse avviandosi solitario alla sua auto. «Sta arrivando la cavalleria, io tolgo il disturbo prima che decidano di arrestarci tutti. Vi consiglio di fare lo stesso!».

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