Capitolo 25
Dubai, Capodanno. 23:19.
Il potente SUV nero con vetri oscurati si immise sulla D89 e si diresse verso il Business Village. Un grande cartello indicò la direzione per The World, un arcipelago composto da trecento isole artificiali, disposte in maniera da richiamare la forma del mondo. L’intero complesso copriva una superficie di nove chilometri ed era situato al largo della costa, poco lontano dall’aeroporto.
E non era la costruzione più stupefacente di quella moderna Las Vegas del Golfo Persico.
Accanto al Mondo – le cui isole, a causa della crisi economica, erano in gran parte invendute – sorgeva l’immensa Palm Jumeria, una penisola a forma di palma con decine di alberghi. Era talmente grande da essere visibile dallo spazio.
Julia non vi badò: tutte quelle attrazioni erano costruite a misura di turista e ormai non la impressionavano più. Viveva a Dubai ormai da cinque anni, da quando, cioè, lo sceicco Al Husayn era stato costretto a fuggire dal suo Paese.
Il volo che l’aveva riportata a negli Emirati era atterrato poco dopo le dieci di sera. Adesso se ne stava sprofondata sul sedile posteriore dell’auto, lo sguardo cupo fuori dal finestrino. Verso il mare, oltre i cavalcavia, si intravedevano le luci sulle punte dei grattacieli e le gru di qualche cantiere. Poco oltre, si scorgeva la silhouette poco discreta del Burj Khalifa, la sua destinazione.
Cercò di immaginare il viso trasfigurato di Mohamed bin Saif Al Husayn ma non ci riuscì.
Per lei, era sempre stato come un padre, gli doveva la vita. Era stato lo sceicco, poco prima di partire per l’esilio, a salvarla dalle grinfie di suo fratello, l’emiro Bashar. Con la sua pelle bianca e i suoi capelli biondi, se non fosse stato per Saif avrebbe finito i suoi giorni in qualche harem, o peggio, in un bordello.
Aveva ventitré anni ed era figlia di un soldato russo e di una donna musulmana. I suoi genitori si erano conosciuti alla fine degli anni Ottanta, durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Nel 1989, quando l’armata rossa si era ritirata, avevano deciso di fuggire e si erano rifugiati nel piccolo principato confinante con gli Emirati Arabi.
Lì, nel 1991, era nata Julia, che aveva ereditato i capelli biondi e la pelle bianca del padre. Era un periodo fiorente per l’economia del Golfo Persico, le esportazioni di petrolio erano ingenti, e nonostante il suo Paese fosse governato con il pugno di ferro da Bashar Al Husayn, si viveva bene.
Le sue sventure cominciarono quando era poco più che una bambina, all’età di quattordici anni. Nell’autunno del 2006, in occasione delle celebrazioni per la fine del Ramadan, venne invitata assieme alle sue coetanee nel palazzo del sultano, dove avrebbero intonato canti in suo onore. Julia, forse a causa del suo aspetto così diverso dalle altre, venne scelta per consegnargli anche un grande cesto di frutti esotici. Bashar la osservò intensamente per tutta l’esibizione, poi, alla fine, si avvicinò per complimentarsi. Non si trattava di un gesto sincero, scoprì più tardi, ma di un segnale indirizzato al suo seguito per indicare la giovane dai capelli biondi. “Prendiamo lei”, significava. Il giorno successivo, alcune donne in uniforme andarono a prelevare Julia a casa con una grossa auto nera.
Non rivide più la sua famiglia.
«Saluta il tuo nuovo padrone», le sussurrò il dittatore, nudo al centro del suo grande harem, lo stesso pomeriggio. Da quel giorno, come molte altre vergini, entrò a far parte delle “Amazzoni della Corona”, guerriere di giorno e oggetti sessuali di notte.
Venne iniziata all’uso delle armi, per proteggere il grande sultano, e le furono al contempo insegnati i modi migliori per compiacerlo sessualmente.
Le avevano spiegato che quella fase sarebbe durata soltanto pochi mesi. Quando il suo acerbo corpo fosse maturato, con ogni probabilità l’emiro si sarebbe dimenticato di lei. Se fosse stata fortunata, avrebbe potuto continuare a difenderlo con le armi, altrimenti sarebbe stata allontanata. Nessuno l’avrebbe sposata e probabilmente sarebbe finita in qualche bordello.
E fu così. Dopo aver imparato tutto ciò che c’era da sapere sulle armi, sulla guerriglia, sulle arti marziali ed essersi donata a Bashar per quasi tre anni, nel 2008 lo sceicco aveva deciso che Julia non gli serviva più.
«Con la tua pelle bianca sono sicuro che potrai rendere felici molti uomini», sibilò, lanciandole un’occhiata lasciva.
Julia rabbrividì. Sapeva cosa significava… Si oppose con tutte le sue forze e, inaspettatamente, l’aiuto arrivò dal fratello dell’emiro: Mohamed bin Saif.
Lo sceicco non l’aveva mai vista e probabilmente non gli importava nulla di lei. Tuttavia era in perenne lotta con Bashar e dovette pensare che quello fosse un buon modo per indispettirlo.
Pochi mesi dopo, i rapporti tra i due vennero definitivamente compromessi e portarono all’esilio di Mohamed. Furono giorni difficili, in cui qualcuno provò anche a ucciderlo.
Julia si rivelò di grande utilità per lui. L’uso sapiente delle armi, appreso durante gli anni tra le Amazzoni, le permise, da sola, di sventare un attentato a Mohamed, sdebitandosi così per quanto lo sceicco aveva fatto per lei.
In seguito, con una piccola delegazione di quattro mogli e diciotto figli, lo sceicco Mohamed bin Saif Al Husayn fu costretto a rifugiarsi negli Emirati Arabi. Julia gli rimase accanto, come sua guardia del corpo più fedele. Quando aveva spostato Meredith, “la perla più preziosa del suo harem, la moglie migliore che avesse mai avuto”, Al Husayn le aveva perfino chiesto di occuparsi di lei.
«Non permettere che le accada mai nulla», le aveva ordinato, con tono pacato ma deciso, quasi da fratello maggiore.
E adesso Meredith era morta.
Il SUV imboccò la rampa e cominciò a scendere nei garage del Burj Khalifa. Parcheggiò accanto a una colonna arancione e spense il motore.
Julia uscì con la testa bassa, come un condannato diretto al patibolo. Si diresse verso l’ascensore e i pochi secondi che servirono per raggiungere il centosettesimo piano le sembrarono interminabili.
Quando la porta scorrevole si aprì sul soggiorno dell’appartamento, Mohamed bin Saif Al Husayn era lì: immobile sulla sua sedia a rotelle e con gli occhi fissi su di lei. Era al centro di una grande sala, con finestre a specchio da un lato, affacciate sul golfo, e un muro tappezzato di quadri del Rinascimento italiano dall’altro.
Per qualche istante lo sceicco rimase in silenzio. Era come un leone chiuso in una gabbia insonorizzata: non poteva muoversi e per quanto ringhiasse nessuno lo avrebbe sentito.
Una lacrima comparve sulla guancia pallida di Julia. Non osava guardarlo in volto. Sapeva quanto lui amasse Meredith.
Si diceva che si fossero conosciuti a Las Vegas, dove la ragazza lavorava come ballerina. Lo sceicco l’aveva invitata a Dubai per una mostra su Botticelli e pochi mesi dopo era diventata la sua quinta moglie. Ciò che Mohamed bin Saif Al Husayn adorava di lei era la sua passione per l’arte. La ragione per la quale era stata inviata a Parigi… e per la quale era morta.
«So che hai fatto tutto quello che potevi», ammise infine lo sceicco. Parole cordiali, forse troppo, ma che nascondevano una tristezza impossibile da esprimere attraverso un sintetizzatore vocale. «Adesso purtroppo dobbiamo guardare avanti».
«Cercavano il dispositivo», si giustificò Julia. «Sapevano che ne avevamo uno funzionante e l’hanno uccisa».
«Verrà il momento per piangere e per la vendetta. Purtroppo però, il tempo non è un bene di cui disponiamo in abbondanza».
Julia non riuscì a emettere neppure un suono. Si guardava la punta degli anfibi e si mordicchiava le labbra.
«Il mio tempo sta per scadere. Ho i giorni contati, sento che la fine sta arrivando… Dobbiamo portare a termine la missione prima che sia troppo tardi. E dobbiamo farlo anche per Meredith».
«Farò tutto quello che serve. A costo della vita. La mia vita ti appartiene».
«Mi hai servito lealmente per molti anni. La tua vita appartiene solo a te. Ma se riusciremo a portare a termine la nostra missione, il nostro popolo, e forse l’intera umanità ci ringrazieranno».
Julia alzò la testa, gli occhi lucidi.
«Cassini», disse infine lo sceicco. «Cassini. Ormai ci rimane soltanto lui. Trovalo e portalo qui. Vivo».
Julia sospirò e fece scorrere lo sguardo su due delle tre teche realizzate negli anni Venti dall’orafo Cesare Ravasco. Non era mai stata una grande esperta d’arte, ma sapeva che i bozzetti custoditi al loro interno, protetti da un cristallo spesso due centimetri, erano di Raffaello Sanzio.
Lo sceicco, una volta, le aveva perfino raccontato la storia della loro provenienza: realizzati dal pittore di Urbino come lavoro preparatorio agli affreschi della Stanza della Segnatura, erano stati acquistati dal senatore Pietro Borghese. In seguito al sacco di Roma, nel 1527, erano stati rubati per poi riapparire cinquecento anni dopo, in una collezione privata, da cui Al Husayn li aveva acquistati in segreto.
Conoscendone la storia, quei tre disegni a inchiostro nero l’avevano sempre affascinata; Proprio per quella ragione, lo sceicco le aveva promesso che, alla sua morte, glieli avrebbe lasciati in eredità. Certamente – si ritrovò a riflettere Julia – dopo ciò che era accaduto aveva cambiato idea…
«Un’ultima cosa…», proseguì Al Husayn, sbattendo le palpebre più volte e scandendo le parole una a una. «Dopo Cassini… portami gli assassini di Meredith».
Pochi minuti dopo, il principe Ibrahim era seduto a un tavolo dell’Armani/Lounge al trentasettesimo piano del Burj Khalifa, settanta piani sotto l’appartamento dello sceicco.
«Non faceva parte dei patti. La voglio qui. Di persona», ringhiò, rabbioso al telefono. «Meredith era la moglie preferita di mio padre».