Capitolo 37
Versailles, 22 dicembre.
Gli occhi nocciola di Meredith erano fissi su di lui.
Erano seduti a un tavolo del piccolo ristorante nei pressi della reggia di Versailles. Al bancone del bar c’erano tre uomini vestiti di pelle che sorseggiavano birra.
Per un istante, la donna rimase in silenzio, poi abbassò lo sguardo ed estrasse dalla borsetta un piccolo oggetto d’alluminio. Un grosso display ne ricopriva l’intera parte anteriore. «Le danno fastidio?», si informò.
«No», fu la risposta secca. Poi si toccò la nuca e con il polpastrello andò ad accarezzare uno dei due minuscoli microchip. Meredith glieli aveva applicati pochi istanti prima. «Odio dovermi ripetere… ma è sicura che questi aggeggi non siano pericolosi?».
La ragazza sorrise. «Come le ho già detto, può stare tranquillo: si chiamano OCST. Sono dispositivi organici. Sono fatti di actina, lo stesso “scheletro” che sorregge le cellule del corpo umano».
L’uomo non sembrava convinto.
«Vede?». Meredith si scostò una ciocca di capelli neri, fino a mostrare un vistoso orecchino e il collo nudo. «Li ho anche io».
In quell’istante un omone con due baffi neri e un grembiule si avvicinò al tavolo. «Signori, cosa posso portarvi?».
Meredith lo degnò appena di uno sguardo, la targhetta con il nome diceva “Pierre”. Poi tornò a guardare il menu e indicò la fotografia di uno dei piatti: «Questa com’è?»
«Ci chiamiamo Le Carré aux Crêpes… quindi direi ottima scelta», rispose Pierre. «E per lei?»
«Lo stesso: una Suzette».
«Ottima scelta…», ripeté ancora il cameriere. Poi indugiò prima di tornare in cucina, incerto se aggiungere qualcos’altro. Infine si decise: «Complimenti per la sua Ferrari… è bellissima».
Lei sorrise e poi tornò a guardalo. Ci fu un secondo di silenzio, nell’attesa che il cameriere si allontanasse. Subito dopo, la moglie dello sceicco sfiorò il display del piccolo dispositivo e lo accese. «Ha particolari preferenze?»
«Scelga lei… sono a sua disposizione».
«Chiuda gli occhi, altrimenti l’esperienza si sovrapporrà a quello che vede adesso». La donna richiamò un file con il polpastrello e premette il tasto “Play”.
Improvvisamente il locale scomparve, sostituito da un cielo azzurro e da uno specchio di mare.
File 201X-03-14 11.18.24.
La piccola barca ondeggiava sul pelo dell’acqua.
Una lieve brezza calda sulla pelle scompigliava i capelli.
Alzò lo sguardo: oltre il tendone che proteggeva gli altri turisti dal sole, si vedeva uno scorcio di mare color smeraldo. Individuò il profilo basso di un’isoletta, la sabbia bianca e le palme verdi direttamente sulla spiaggia. La barca si era fermata a una cinquantina di metri dalla costa.
«Hama pahunˉceˉ», balbettò uno dei marinai: “Siamo arrivati” in lingua hindi.
Gli altri occupanti dell’imbarcazione si alzarono quasi contemporaneamente. Erano otto in tutto, indossavano costumi alla moda, pinne e maschera da sub.
Uno alla volta, aiutati dai marinai, si immersero nell’acqua.
Fece lo stesso, scendendo dalla piccola scaletta.
Il mare aveva una temperatura piacevole ed era trasparente e cristallino come una lastra di vetro.
Si staccò dalla barca e si lasciò andare. Mosse qualche bracciata. Decine di pesci colorati gli nuotavano attorno, poi tornò a osservare la piccola imbarcazione che li aveva portati fin lì.
«Apaneˉ sira keˉ nıˉceˉ d∙aˉla diyaˉ», suggerì il marinaio gesticolando con le mani. Capiva abbastanza bene l’hindi: “Metti la testa sotto!”.
Seguì il consiglio e non appena gli occhi si furono immersi sotto il pelo dell’acqua lo spettacolo della barriera corallina fece aumentare i battiti cardiaci: sembrava Trafalgar Square nell’ora di punta, solo che al posto di automobili, pullman e taxi c’erano pesci variopinti di ogni misura e colore.
Riconobbe pesci balestra, pesci sergente a righe beige e nere, e pesci chirurgo blu con delle splendide pinne gialle. Sembravano nuotare senza una meta precisa. Si incrociavano e si sovrapponevano in un groviglio frenetico di bolle, di coralli e alghe che si libravano nell’acqua.
Poco più sotto, la barriera si faceva imponente: spuntoni di pietra rossa emergevano di alcuni metri e cespugli verdi, gialli e blu danzavano seguendo le correnti calde.
Nuotò per qualche metro sul pelo dell’acqua, tenendo sempre il boccaglio tra i denti e il tubo per la respirazione diretto verso il cielo, come gli era stato spiegato.
Adesso vedeva un Acanthurus Triostegus, un pesce chirurgo pentastriato che si allontanava lentamente dalla barriera. Poco oltre c’era un esemplare di aquila di mare maculata. Era una specie di aquilone marrone che agitava le ali e si avvicinava a un corallo a forma di piramide.
Poi l’immagine scomparve di colpo.
«Direi che può bastare per rendere l’idea». Meredith sfiorò il tasto “Pause”.
Lui aprì gli occhi. Sul volto, l’espressione di chi ha appena visto un fantasma ballare il tip tap. «Incredibile…», riuscì solo a balbettare.
«Le avevo detto che ne valeva la pena», gli fece eco la donna.
«Ma come è possibile?».
Lei sorrise, incerta se il suo ospite avrebbe potuto comprendere le modalità con le quali funzionava il dispositivo. Poi, vista l’importanza di quell’incontro, decise di provare a spiegarglielo. «Quando viviamo una qualunque esperienza, i neuroni del cervello interagiscono per permetterci di memorizzare quanto accade. Si generano delle reazioni chimiche che creano a loro volta degli impulsi elettrici. Per farla breve, il dispositivo misura e registra questi impulsi ed è in grado di riprodurli a livello atomico».
«Ma è stato come essere lì!».
«Non proprio…», lo corresse Meredith. «Non è stato come essere lì. Lei, per il suo cervello era lì a tutti gli effetti. Ha nuotato, ha compreso quello che dicevano i marinai anche se parlavano hindi, ha riconosciuto le specie di pesci senza averle mai viste».
L’uomo rifletté per un istante, poi tornò a osservare la ragazza scuotendo la testa. Era andato a quell’appuntamento soltanto per fare una cortesia a un amico e adesso si trovava davanti a un affare ai limiti della fantascienza. «Incredibile…», riuscì solo a ripetere.
La ragazza sorrise. «Tutti i suoi sensi sono coinvolti, tutte le emozioni. È un’esperienza che si imprime direttamente sulla sua corteccia cerebrale. Lei è lì: sta nuotando, sta sentendo, sta vedendo… percepisce gli odori, sente il freddo, il caldo… se mangiasse sentirebbe i sapori… se fosse arrabbiato proverebbe rabbia. Non è come essere lì…», ripeté Meredith. «Lei è lì. A tutti gli effetti. Il suo cervello non percepisce alcuna differenza».
Per qualche secondo l’uomo rimase in silenzio, poi decise. «Ok, ci sto!».
Meredith annuì soddisfatta.
«Cosa volete che faccia esattamente? Si tratta solo di guardare qualche quadro?»
«L’esperienza che ha appena visto è stata registrata, impressa da me, qualche mese fa. Mio marito era un appassionato di snorkeling ma da quando si è ammalato non può più praticarlo».
«E così… rivede l’esperienza memorizzata da qualcun altro…».
«Noi preferiamo dire impressa».
«Mi scusi…».
La donna continuò. «Nel momento in cui aziona il dispositivo, lei rivive i ricordi di un’altra persona, così come sono, integrali, grezzi, presi direttamente dai suoi neuroni… Non è un dettaglio chi è la persona che ha impresso quell’esperienza. Ognuno di noi, quando interagisce con il mondo, lo fa in modo unico: i nostri pensieri, le nostre riflessioni, le nostre conoscenze si mescolano e vanno a imprimersi nel file. Si genera un cocktail unico di reazioni chimiche che poi saranno rivissute da qualcun altro».
«Quindi, se non ho capito male, volete me per quello che so sull’arte?»
«Esattamente. Potrei mandare chiunque a imprimere il ricordo di un quadro… ma mio marito vuole il ricordo di una persona competente, una persona con grande esperienza e conoscenza del Rinascimento… Una persona che possa aggiungere alla semplice vista le sue percezioni. Uno come lei, insomma».
L’uomo sorrise. «È un po’ come andare al cinema… meglio vedere un film girato da Steven Spielberg che dalla vicina di casa, giusto?»
«È proprio così… Ha centrato il problema». La ragazza estrasse dalla borsa alcuni fogli e li porse all’uomo. «Questo è un contratto preliminare. L’esperimento sarà molto breve, anche se potremmo dover registrare su un supporto differente dai dischi a ultrasuoni che ho usato poco fa».
Lui prese il contratto e cominciò a esaminarlo.
«Per il tipo di esperienza di cui abbiamo bisogno, ci siamo resi conto che la quantità di dati da immagazzinare è superiore alla capacità di storage dei dischi. Useremo un supporto biologico, un biosupporto, ma trova tutti i dettagli nel contratto».
L’uomo continuò a leggere senza dare peso alle parole di Meredith, infine alzò lo sguardo e la fissò. «Va bene, ci sto».
La ragazza gli porse una Aurora d’oro e gli indicò dove firmare. «Appena rientro in hotel, dirò a mio marito di far partire la prima donazione».
Andrea Cavalli Gigli annuì e scarabocchiò la sua firma in calce al documento.
«Non se ne pentirà, soprintendente. Lei faccia quello che le abbiamo chiesto e i suoi musei avranno i fondi per andare avanti almeno un altro decennio».
Lui sorrise, si alzò in piedi e per un istante la sua immagine si riflettesse nello specchio. Poi tese la mano. «Allora siamo d’accordo. Ci vediamo il ventisei dicembre».