Capitolo 15

 

 

 

 

 

Lione, 28 dicembre. 09:15.

 

«Questo è interessante», esordì Fabien Bérot. Era un nerd di poco più di vent’anni, con tre orecchini nello stesso lobo e una coda di cavallo raccolta dietro la nuca. Parlò con la sua solita pronuncia piatta, priva di calore. «Vedi?».

Nigel Sforza si avvicinò al terminale dietro al quale era sistemato Bérot. Sullo schermo piatto si vedeva una specie di disco metallico di color argento.

Erano nel laboratorio del ragazzo, al terzo piano della sede centrale dell’Interpol, un cubo di vetro costruito tra il Rodano e il parco della Tête d’Or.

«Ho smontato il dispositivo perché proprio non riuscivo a capire a cosa potesse servire». Bérot si schiarì la voce. «Non è, come mi hai detto tu, uno strano iPod… anche se non sei andato troppo lontano dalla verità. Almeno credo».

«Cos’è allora?»

«Ecco, qui c’è il primo problema: Con esattezza non lo so».

Sforza si strofinò gli occhi e fissò il piccolo dispositivo smontato. Si vedevano alcuni microchip appoggiati ordinatamente alla scocca d’alluminio.

«Certamente è un supporto per la registrazione di dati». Bérot prese a battere sulla tastiera come un pianista durante un concerto. «È una specie di hard disk basato su una tecnologia di cui ho sentito parlare recentemente».

«E qual è la cosa strana?», lo interrogò Sforza.

«Vedi, questa parte è magnetica». Il giovane ingrandì sul video il disco argenteo che Sforza aveva visto in precedenza. «Sembra il cuore del dispositivo. Come costruzione è abbastanza simile a quella di un normale disco fisso».

Sforza incrociò le braccia in modo plateale e continuò ad ascoltare il monologo di Bérot. Era sicuro che quel ragazzo non provasse emozioni e certamente non era in grado di comprenderle: era lì da pochi minuti ed era già riuscito ad annoiarlo.

«La parte interessante però è questa». Sullo schermo comparve un’altra immagine: sembrava un grosso gomitolo di lana, ma doveva essere una fotografia scattata al microscopio. Tutt’intorno si vedevano dei circuiti e alcuni microchip. «Secondo me potrebbe essere un generatore di ultrasuoni».

«Fabien, non farla troppo lunga. A cosa serve?»

«Io credo che serva a registrare dati. Molti dati», borbottò il giovane informatico. «Ho letto qualcosa su “Wired” qualche mese fa. L’idea sfrutta il bombardamento di un settore del disco magnetico con ultrasuoni. Grazie al momentaneo surriscaldamento, il materiale magnetico del supporto si dilata e aumenta lo spazio di storage. E aumenta di molto… Direi all’incirca fino a due petabyte, forse anche di più. Per darti un idea un solo petabyte corrisponde a due milioni di gigabyte».

Sforza si grattò la testa e poi fece cadere lo sguardo sulla fila di case sistemata dietro la postazione di Bérot. Lì accanto c’era un cellulare con il display carbonizzato, sembrava fosse stato appena ripescato da un caminetto acceso. La sua attenzione cadde però sul poster di una modella sorridente che mostrava due natiche sode. «Se non ho capito male, quindi, questo è una specie di hard disk. Punto».

«È molto di più. Questa tecnologia non è ancora sul mercato. Purtroppo è danneggiato quindi non ho modo di risalire ai dati incisi sul disco. Se funzionasse, i brevetti di quest’oggetto sarebbero di grande valore…».

Sforza scosse la testa. «Grazie Fabien, mi sei stato di grande aiuto». Era una battuta, ma tanto lui non avrebbe riso.

«Aspetta. Non ti ho fatto venire solo per questo. Ti devo mostrare la cosa più importante».

L’investigatore dell’Interpol alzò gli occhi al cielo.

«Vieni». Il giovane attraversò il laboratorio e raggiunse una porta a vetro scorrevole. All’interno c’erano grossi macchinari simili a quelli per la TAC di un ospedale. Si sedette dietro a un terminale e mosse il mouse. «Questo è l’oggetto più interessante che mi hai mandato».

Sullo schermo comparve un’immagine blu e rossa. La forma era quella di pilastri che sorreggevano una struttura di tre piani, come un grattacielo senza muri.

«Cosa sto guardando?»

«Una foto scattata con un AFM, un microscopio a forza atomica».

«È il microchip trasparente?», tagliò corto Sforza.

«Uno dei due. A proposito, dopo che te ne sei andato dal Vaticano, ne hanno trovato un altro identico. Sembra fosse tra i frammenti del vaso. Ovviamente hanno pensato di mandarmeli entrambi…».

Sforza annuì.

«Comunque…», insistette il nerd, «quelle che vedi sono molecole di actina, una sorta di scheletro che sorregge le cellule del corpo umano».

«E allora?»

«Quei microchip non sono a base di silicio, come tutti i microchip, Nigel. Sono molto di più, sono biologici. L’anno scorso il governo degli Stati Uniti ha concesso un finanziamento di 37 milioni di dollari a una start up di Palo Alto, che stava sviluppando una tecnologia simile».

«A cosa servono?»

«Bella domanda. Non ne ho idea… È una specie di chip tridimensionale, la struttura di actina è come un’impalcatura. Ci sono poi residui di filamenti d’oro. Sospetto che servano a condurre elettricità».

«Funziona?»

«Tenderei a escluderlo. Dalle immagini sembrerebbe danneggiato in più punti».

«Ti ringrazio molto». Sforza sorrise, ma il suo sguardo era perso nell’immagine blu e rossa sullo schermo

Non lo so.

Non ne ho idea.

Quelle erano state la risposte standard di Bérot. Forse però non era stato tempo sprecato…

Dopo pochi minuti ringraziò e uscì lasciando il giovane con gli occhi puntati al microscopio.

 

Mentre attraversava il lungo corridoio al terzo piano del palazzo a vetri dell’Interpol, Sforza provò a riflettere.

L’incontro con Fabien Bérot era stato tutt’altro che chiarificatore. Il giovane aveva semplicemente detto che i due dispositivi trovati in Vaticano erano un concentrato di tecnologia innovativa. Certo, sarebbe stato interessante capire come de Beaumont ne fosse entrato in possesso, ma le informazioni di cui disponeva erano ancora troppo poche.

Due frasi, dette dal giovane, – le uniche che aveva compreso alla perfezione – continuavano però a rimbalzargli nella mente. Senza volere, Bérot aveva messo l’accento sulla questione principale: «Se funzionasse, i brevetti di quest’oggetto sarebbero di grande valore», aveva detto. Poi, quando parlava del microchip aveva aggiunto: «37 milioni di dollari a una start up di Palo Alto».

Soldi. Per esperienza sapeva che quello, nel novanta percento dei casi, era il movente per ogni delitto.

De Beaumont, però, ufficialmente si era suicidato…

Sforza entrò nell’ascensore e scese al piano terra. Appena fu nell’androne si diresse verso l’uscita. Aveva lasciato la sua MG B Roadster del 1967 vicino al lago, all’ingresso del parco della Tête d’Or.

Attraversò la strada e improvvisamente una Bentley nera, con i vetri oscurati, gli si accostò. Il finestrino posteriore si abbassò e il passeggero invitò Nigel a salire.

L’agente dell’Interpol si guardò intorno, con sguardo preoccupato. Non c’era nessuno.

In un primo momento pensò di fuggire a piedi. Potevano essere dei creditori che volevano dargli una lezione?

In pochi secondi, però, la sua preoccupazione svanì. Dall’interno della macchina gli fu mostrata una fotografia che Sforza non faticò a riconoscere. Poi, una voce pronunciò una sola frase, ma fu sufficiente a convincerlo a salire sul sedile posteriore: «Abbiamo delle informazioni per lei su monsignor de Beaumont».

La chiave di Dante
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