Capitolo 17

 

 

 

 

 

Parigi, Capodanno. 09:45.

 

Manuel Cassini raggiunse la piramide principale del Museo del Louvre stremato come se avesse corso la maratona di New York.

Scese le scale mobili e dopo pochi passi si ritrovò in un androne circolare, ricoperto di marmi chiari con altorilievi cinquecenteschi alle pareti. Da lì si aprivano diversi corridoi che portavano alle varie ali del museo.

Nonostante il giorno di festa, sembrava ci fosse poca confusione. Appoggiati alla balaustra di vetro, che si affacciava sul piano inferiore, si notavano solo alcuni turisti sorridenti.

Cassini cercò di orientarsi seguendo le indicazioni per l’ala Denon e si ritrovò in un corridoio più luminoso, dal quale filtrava la luce esterna.

Si fermò per un secondo. Continuava a sudare e non riusciva a togliersi dalla mente i pensieri ricorrenti che lo avevano perseguitato fin dal suo risveglio.

Durante l’ultima parte del breve tragitto in macchina le sue visioni si erano intensificate: il viso di Cavalli Gigli, la pistola fumante e poi una folle corsa su un’auto sportiva. Ripensandoci era perfino riuscito a capire che tipo di auto fosse: sul volante in pelle c’era uno scudo giallo con un cavallino rampante. In quell’ultimo ricordo si era fermato davanti a una costruzione bassa con il tetto d’ardesia e il muro dipinto di rosso. L’ultima cosa che aveva visto era stata un cartello stradale con l’indicazione Versailles e un’insegna che diceva: LE CARRÉ AUX CRÈPES.

In cima alla scala gli si aprì davanti un grande atrio con soffitti alti sei metri e antichità greche. Continuò a camminare seguendo i cartelli sui quali campeggiava il sorriso enigmatico della Monna Lisa.

Capodanno, alle 10 davanti alla Gioconda. Il testo dell’email inviatagli da Cavalli Gigli non lasciava adito a interpretazioni. La domanda che lo affliggeva mentre svogliatamente si addentrava nel corridoio, però, era sempre la stessa: il soprintendente sarebbe andato all’appuntamento? Era vivo, oppure il suo flashback era reale… e allora era morto?

Decise di ignorare quell’ultimo presentimento e si costrinse a riflettere su interrogativi ai quali poteva dare una risposta. Ripensò al testo dell’invito: se il soprintendente aveva scelto quel luogo ci doveva essere una ragione. Perché proprio la Gioconda? Aveva a che fare con il loro libro?

Era certamente così: nel Segreto dei pittori maledetti avevano ipotizzato che l’ossessione di Botticelli per Dante fosse dovuta alla volontà di comunicare qualcosa, una specie di codice comune tra il quadro e la Divina Commedia. Avevano lavorato per mesi, insieme a un altro grande esperto del Cinquecento, monsignor Claude de Beaumont, cercando di dimostrare quella teoria ma alla fine avevano desistito. Se la Primavera nascondeva qualche messaggio occulto, comune anche alle opere di Dante, loro non l’avevano trovato…

L’idea di incontrarsi davanti alla Gioconda, in ogni caso, non era certamente casuale. Una delle teorie che avevano provato a sviluppare, senza successo, era che il medesimo codice che sospettavano esistesse nelle opere di Botticelli, potesse esserci anche in altre opere dello stesso periodo. Ovviamente avevano pensato a uno dei quadri più importanti del Rinascimento italiano, la Gioconda di Leonardo Da Vinci.

Verso la metà del corridoio, il giovane esperto di Dante si infilò nella Salle des Etats, la stanza della Gioconda. Era una grande sala con tetto in vetro, progettata dall’architetto peruviano Lorenzo Piqueras. Oltre al quadro di Leonardo, le pareti erano tappezzate di innumerevoli altre opere del Rinascimento veneziano.

La Monna Lisa era sistemata su un muro autoportante che divideva in due la galleria. Era l’unico dipinto su quella parete color sabbia, dietro a un vetro di sicurezza a prova di esplosivi e di agenti corrosivi. Nel 2009, quella teca infrangibile l’aveva protetta anche da una tazza maldestramente lanciata da una visitatrice russa. Per evitare episodi di quel tipo, ma soprattutto perché la Gioconda era visitata giornalmente da sedicimila persone, non era possibile avvicinarvisi a più di due metri: una grande balaustra in legno era sistemata a semicerchio attorno al quadro e fungeva da limite invalicabile. Vi era appoggiata una ventina di turisti sorprendentemente silenziosa.

Cassini si avvicinò lentamente, guardandosi intorno. Non vedeva Cavalli Gigli da anni, ma era certo che l’avrebbe riconosciuto.

Fissò l’orologio: erano le nove e cinquantacinque.

Si girò più volte su se stesso ma senza riuscire a individuare il soprintendente.

Decise di spostarsi di qualche metro. Attese ancora pochi secondi, poi una voce attirò la sua attenzione: «Manuel Cassini?». Era squillante e proveniva da dietro di lui.

«Sì, sono io», rispose mentre si voltava, sorridente.

Davanti a lui però non c’era Cavalli Gigli. Vide un uomo che non conosceva, barba incolta e giacca di pelle. Poco più indietro c’erano due gendarmi in uniforme.

«Sono l’ispettore Sforza, dell’Interpol», annunciò lo sconosciuto in un italiano perfetto. «Vorrebbe essere così gentile da seguirci?».

Cassini non riuscì a rispondere. Il cuore gli balzò in gola.

«Scusate non mi…». Balbettò quelle poche parole cercando di appoggiarsi all’ispettore.

I due gendarmi si avvicinarono e lo sorressero.

Improvvisamente un formicolio cominciò a salirgli dalla base della schiena fino al collo. La stanza cominciò a girare vorticosamente e tutto si fece nero.

La chiave di Dante
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