Capitolo 75
Reykjavik, 1 febbraio. 13:12.
Due settimane dopo l’incontro con il Toro, Joonas Eklöf percorreva ad alta velocità la grande arteria che collega l’aeroporto al centro della città.
«Le autorizzazioni sono arrivate?», domandò Julia, seduta di fianco a lui. Era atterrata quella mattina in compagnia di Timothy Dempsey e Manuel Cassini, ormai determinato a dissotterrare il tesoro che aveva contribuito a individuare. Nel taxi che li seguiva a breve distanza c’era anche il principe Ibrahim Al Husayn, scortato da tre guardie del corpo.
Davanti a loro, nel chiarore del giorno, si stagliava lontana la penisola bianca dello Snæfellsnes. La grande distesa verde, alternata al nero della lava e al bianco della neve, stava lasciando il posto ai colori più grigi delle prime costruzioni.
«È tutto pronto», annuì il finlandese mentre osservava lo specchietto. «Sono stato sul posto la settimana scorsa. Abbiamo realizzato un accampamento a nord-ovest della cascata perché era impossibile arrivare direttamente con i camper».
«C’è molta neve?», lo interrogò Cassini, fissando fuori dal finestrino grossi cumuli ghiacciati anneriti dal traffico e ammucchiati sul ciglio della strada.
Eklöf annuì più volte e mise la freccia a sinistra. «Come ho già avuto modo di spiegarvi, febbraio non è il mese migliore per scavare. Parte dei fiumi e i costoni della cascata sono del tutto gelati. E anche la strada sterrata per arrivare a Gýgjarfoss è difficilmente praticabile.
«Ne abbiamo già discusso», tagliò corto Julia che, dalla riunione nella quale erano stati decifrati gli indizi della Divina Commedia, sembrava diventata più decisa che mai a esaudire l’ultimo desiderio del suo capo. «Purtroppo, il tuo amico Mohamed ha i giorni contati. Non potevamo attendere l’estate!».
Eklöf sembrò sinceramente rammaricato e non replicò.
«La squadra è pronta a partire?»
«Il geologo Hólmar Bjarnason e Jari Johansson, lo storico che avete conosciuto in estate, sono già sul posto. Con loro c’è Kjell Lagerbäck, il responsabile della Geosync, la società a cui abbiamo affidato la gestione dei georadar».
«Le guide?»
«Abbiamo appuntamento con loro dopodomani, come concordato».
Cassini, con la giacca a vento ancora allacciata nonostante il caldo dell’abitacolo, si sporse tra i due sedili. «Quanto tempo ci vuole per raggiungere la zona?»
«D’estate circa sei ore. Con il clima attuale un po’ di più», chiarì l’archeologo, mentre l’auto attraversava una zona della città con edifici di legno alternati a moderni palazzi in vetro. «Ci muoveremo in gruppo, è più prudente. Ho noleggiato cinque pick-up con gomme chiodate da 38 pollici e verricello».
«Le guide?», insistette ancora Julia.
«Ólína e Rúnar Einarsson, marito e moglie. Nessuno conosce quella zona meglio di loro. Siamo anche stati fortunati, erano liberi in occasione delle festività di mezzo inverno e quindi siamo riusciti a ingaggiarli».
Nel frattempo l’auto era giunta nel centro storico, nei pressi della via principale di Reykjavik, la Laugavegur. Era una zona caratterizzata da un insieme eterogeneo di edifici: uno accanto all’altro, convivevano palazzi alti e bassi, colorati e di legno, antichi e moderni. Anche la pavimentazione stradale seguiva la stessa regola del caos: terra lavica alternata a brecciolino, a mattonato e ad asfalto.
Cassini stava per chiedere qualcosa a riguardo ma il veicolo si fermò di colpo sul bordo di una piazza cinta da alberi spogli e immersa nella tranquillità; c’erano due taxi fermi e un autista infreddolito accanto alla sua auto, concentrato su una sigaretta.
«Siamo arrivati, questo è l’hotel Odinsve, a due passi dal centro», concluse il finlandese. Dopo poco anche l’auto con a bordo il principe si accodò alla loro.
Julia squadrò l’edificio con attenzione, pronta a individuare potenziali pericoli per il dispositivo che lo sceicco aveva insistito per farle portare nella missione; a prima vista non sembravano essercene: era un cubo con le pareti bianche e l’aspetto anonimo.
Scesero dall’auto di Eklöf e, infilati gli zaini, si diressero all’ingresso.
Più o meno nello stesso istante, Hidetoshi Tanaka ammirava il panorama dalle grandi vetrate dell’aeroporto di Reykjavik. Un pallido sole scintillava davanti a lui, sotto un cielo carico di nuvole bianche e spumose.
«Si trattiene per molto?», gli domandò Teitur, un addetto della dogana. «Turismo o affari?»
«Affari».
Il giovane armeggiò per qualche istante sul suo terminale e poi timbrò il passaporto del giapponese. «Buona permanenza».
Affari.
“Buoni affari… Spero!”.