Capitolo 89

 

 

 

 

 

Candida rosa, 6 febbraio. 13:45.

 

La benna del piccolo escavatore Liebherr affondò a fatica nel terreno congelato, in uno stridio di acciaio sulla roccia.

Il potente motore diesel muggì di nuovo come un bue affaticato e il braccio articolato asportò un masso di pietra lavica.

Si trovavano sul lato sud dell’anfiteatro, nel punto più basso. Erano poco distanti da un corso d’acqua ghiacciato che si insinuava in una fenditura del terreno. Il sole era sbiadito sull’orizzonte e l’aria gelida.

«Avanti… avanti… avanti, piano!», ordinò Joonas Eklöf, portandosi le mani sugli occhi per difendersi dalla forte luce.

Accanto a lui c’era Hólmar Bjarnason e i geologi della Geosync, immobili e intirizziti. Erano con le spalle rivolte al grande ghiacciaio che incombeva silenzioso su di loro e fissavano lo scavo principale: una voragine lunga sei metri, larga due e ormai profonda quasi tre.

Gli altri membri della spedizione erano stati radunati a una ventina di metri di distanza, sul lato ovest, nei pressi di un grosso blocco di basalto ricoperto di neve. Alcune guardie li tenevano sotto tiro con i fucili M4 spianati.

Mentre Eklöf gesticolava rivolto al tecnico che manovrava il mezzo meccanico, il capo dei mercenari si avvicinò a lui. «A che punto siamo?»

«Dovremmo quasi esserci», rispose Bjarnason, accarezzandosi l’asticella degli occhiali. «I tracciati davano la camera sotterranea a circa tre metri di profondità».

«Credo sia arrivato il momento di continuare lo scavo manualmente», intervenne Eklöf. «Se siamo prossimi al soffitto della camera, conviene essere più accurati».

Il toro annuì e poi bisbigliò qualcosa nella ricetrasmittente.

Il mezzo meccanico ruotò su se stesso e appoggiò la pala al terreno.

In pochi minuti, sotto la minaccia delle armi, gli archeologi furono fatti avvicinare. Muniti di occhiali protettivi, pennellini e sessola – una piccola paletta con la punta arrotondata – cominciarono a rimuovere i ciottoli superficiali.

Furono divisi in tre gruppi, a ognuno dei quali fu affidato uno dei riquadri principali dello scavo, delimitato da picchetti e nastro giallo.

Cassini e Julia, in compagnia dello storico Jari Johansson e di un affranto Rúnar Einarsson osservavano la scena da una posizione soprelevata. Impauriti e sporchi, gli uomini che fino alla sera prima avevano scherzato e bevuto, sembravano tante piccole api operose. Mentre con un occhio fissavano le canne dei mitra, gattoni rimuovevano rocce laviche, ghiaccio e terriccio. Solo uno di loro non aveva mai abbassato lo sguardo e non aveva mai imprecato: Eklöf, il capo spedizione.

Julia lo fissò in silenzio, parlava tranquillamente con il capo dei mercenari.

Dopo circa un’ora, si rannuvolò e cominciò a scendere una neve fina come granelli di sale. Il Toro non sembrò impensierito e anzi, spronò gli archeologi a procedere più in fretta. Non aveva idea di quanto tempo avrebbe richiesto lo scavo, ma non era disposto a passare lì un’altra notte.

«Ho trovato qualcosa», urlò improvvisamente uno dei ragazzi. «Sembra una lastra di basalto».

Bjarnason si avvicinò, lisciandosi il mento. «Potrebbe essere il tetto della camera?»

«Potrebbe», assentì Joonas Eklöf, molto più eccitato di quanto avrebbe creduto. «Procedete superficialmente. Vediamo quanto è larga la lastra», ordinò poi con il tono di voce più alto.

Gli altri archeologi si avvicinarono e cominciarono a pulire la superficie scabra e a rimuovere i residui di terreno.

Occorse un’altra ora buona per individuare, un paio di metri oltre la prima lastra, una fenditura.

«Parrebbe un ingresso», spiegò Eklöf al Toro. «È coperto da un altro masso».

«Riusciamo ad aprirlo e vedere cosa c’è sotto?», gli domandò il sudamericano.

«Dovrebbe essere sufficiente spostare la lastra che lo copre…».

«Ci siamo!», gridò uno dei giovani. «Se per voi va bene, procediamo».

Eklöf annuì, incrociando le braccia.

Hólmar Bjarnason, accanto a Julia e Cassini, scosse impercettibilmente la testa. «A me sembra una fenditura naturale».

«Ecco, è aperta!». La voce proveniente dal fondo dello scavo aveva un tono trionfale.

«È abbastanza larga da farci entrare un uomo», constatò il Toro, osservando la fenditura. Poi si voltò verso il lato ovest in cerca di Cassini. «Professore. Ha mai fatto lo speleologo? A lei l’onore di entrare per primo».

Non passò un secondo che la sua radio gracchiò.

«Qual è il problema?», ringhiò al microfono. Un istante dopo il suo volto si incupì. Alzò lo sguardo e fissò Cassini, che stava scendendo verso lo scavo con un viso terrorizzato, e sospirò.

 

Pochi minuti prima, alle quindici e quarantacinque, Nigel Sforza era accucciato sotto un costone lavico, protetto da un mucchio di neve fresca accumulata dal vento.

Aveva lasciato l’auto a cinquecento metri dalla destinazione indicata dal navigatore e, per evitare di essere visto, aveva deciso di proseguire a piedi. Prima di scendere dal pick-up aveva preso la pistola, il piccolo binocolo Z-Nav, le manette a altri oggetti che credeva gli potessero essere utili. Poi, dopo una veloce riflessione, aveva richiuso il borsone della Geosync e l’aveva nascosto tra i sedili. Infine aveva affondato gli scarponi nella neve gelata e si era appostato a distanza di sicurezza.

I mercenari si erano fermati ai piedi di un avvallamento nel terreno. Con i loro mezzi e un piccolo cingolato dotato di pala meccanica avevano scavato tra il ghiaccio per quasi tre ore.

Per quanto si sforzasse, Sforza non aveva deciso come agire. L’effetto sorpresa era certamente dalla sua parte ma tutto il resto, a cominciare dal numero di avversari, giocava contro di lui.

Inizialmente aveva pensato di avvicinarsi di più, con discrezione, alla zona dello scavo. Avrebbe potuto togliere di mezzo gli aggressori a uno a uno, come un cecchino addestrato. Quell’idea, tuttavia, era durata solo pochi istanti: sapeva di non essere un tiratore così bravo. Forse avrebbe potuto colpire qualcuno dei mercenari, ma sperare di eliminarli tutti era pura follia.

E adesso era lì, immobile, sdraiato nella neve gelata, a fissare due persone che conosceva appena e per le quali stava rischiando la vita.

Puntò nuovamente il binocolo in direzione di Cassini e Julia: si trovavano alla sua destra, a una ventina di metri dall’escavatore.

«Ecco, è aperta!», gli parve di udire, nel silenzio, dalla sua posizione.

Ma non riuscì a sentire il resto perché un oggetto gelato gli fu premuto contro la nuca.

«Non muovere neppure un muscolo o ti faccio saltare il cervello». La voce era roca. Era certo di non averla mai sentita.

Sforza eseguì l’ordine, rimanendo immobile. L’uomo, però, per riuscire a vederlo in faccia lo strattonò per un braccio obbligandolo a girarsi.

Mentre fissava l’aggressore, l’ispettore alzò le mani imprecando mentalmente: non l’aveva sentito arrivare e non l’aveva mai visto. A giudicare dall’abbigliamento mimetico, però, doveva essere uno dei mercenari che perlustrava i dintorni dell’anfiteatro.

«Capo. Abbiamo un “fuori programma”», disse il militare alla ricetrasmittente.

La radio gracchiò. «Qual è il problema?»

«C’è un uomo. Armato. L’ho immobilizzato».

Dopo alcuni secondi, l’ordine del Toro arrivò anche all’orecchio di Sforza. E gli gelò il sangue.

«Uccidilo!».

La chiave di Dante
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