Capitolo 69

 

 

 

 

 

Parigi, 5 gennaio. 14:57.

 

Nigel Sforza si incamminò lungo gli Champs-Élysées con un sorriso sornione dipinto sul viso. Gli era rimasto attaccato alla faccia dalla sera precedente e, per quanto si sforzasse di tenere un atteggiamento austero, proprio non ci riusciva.

L’incontro con la donna che aveva detto di chiamarsi Julia aveva risolto, almeno per un po’, il suo problema con i soldi. Con un milione di euro in più avrebbe potuto godersi donne e alcol senza l’assillo di qualche strozzino sotto casa.

Aveva comunque deciso di tenere un profilo basso: nessuno doveva sapere che la sua situazione finanziaria era mutata. La cosa più intelligente da fare, il modo migliore per evitare che a Lione qualcuno si insospettisse e facesse domande, era far finta di nulla. Esattamente come dopo una grossa vincita alla lotteria.

E il modo migliore era continuare il suo lavoro… dopotutto aveva ancora un caso da risolvere: trovare il killer di Meredith Evans e di Andrea Cavalli Gigli.

«Cerchi un giapponese con un occhio verde e uno marrone e avrà il suo assassino», aveva sibilato la bionda sulla pista di Ciampino; più o meno le stesse informazioni fornite da Manuel Cassini dopo l’incontro a Castel Sant’Angelo.

Il professore, però, aveva aggiunto un elemento in più: una pistola dorata.

Come indizi non erano granché, ma li aveva fatti inserire da Fabien Bérot nel database dell’Interpol e incredibilmente avevano avuto un riscontro: una denuncia presentata da un’impiegata della Hertz di Parigi, tre giorni prima. La giovane aveva riferito di essere stata minacciata da alcuni uomini e quello che sembrava il capo era un giapponese affetto da eterocromia. Guarda caso, aveva anche sventolato una pistola con la canna dorata.

Sforza spinse la porta di vetro ed entrò nell’autonoleggio. Il locale era sorprendentemente piccolo. C’era un bancone in tek di fronte alla vetrata, una lampada a collo di cigno, due semplici poltrone di velluto e un orologio che ticchettava sulla parete.

«Cosa posso fare per lei?», esordì la giovane.

«Sono l’ispettore Sforza dell’Interpol», le rispose mostrando il tesserino.

«Ho già detto tutto alla polizia!», ringhiò lei, le mani distese sui fianchi rotondi. «Quel tizio mi ha minacciato con la pistola… a distanza di giorni tremo ancora se ci penso».

«Cosa voleva esattamente?»

«I dati del GPS per rintracciare una delle nostre auto… ma l’ho già detto alla polizia».

«Chi l’aveva noleggiata? La polizia glielo ha chiesto?»

«Certo che me lo ha chiesto…», rispose lei, stizzita.

«E lei glieli ha forniti quei dati?… Al giapponese, intendo».

«Lei cosa avrebbe fatto?».

L’ispettore sorrise, gli occhi ridotti a una fessura. Poi fece cadere lo sguardo dietro la ragazza, sullo spigolo del muro. «E come si chiamava il fortunato cliente che tanto premeva al giapponese?».

La giovane, che aveva imparato quel nome a memoria, a furia di rispondere alle stesse domande, glielo disse senza neppure fingere di riflettere: «Manuel Cassini. Ha pagato con una carta di credito».

Sforza non fu affatto sorpreso. “Cassini. Poveretto”. L’unico ad averci rimesso era proprio lui ma, come sosteneva qualcuno, è la specie più debole a soccombere…. In tutta quella vicenda, il professore era solo una comparsa insignificante. Per quanto potesse valere, comunque la bionda gli aveva garantito che non gli avrebbero fatto del male. Per un secondo, prima di tornare a pensare al suo conto in banca, si augurò che fosse davvero così.

«Be’, oggi allora è il suo giorno fortunato», scherzò Nigel, estraendo i Ray-Ban dal giubbotto.

«Perché?», fece lei, l’abbondante décolleté appoggiato al bancone.

«Perché qualcuno ha deciso di risolvere il caso. Quella telecamera a circuito chiuso funziona?».

 

Dieci minuti dopo, Sforza tornava ancora più allegro verso l’Arc de Triomphe, con il cellulare in una mano e una fotografia del giapponese nell’altra. Era una stampa in bianco e nero ma con una buona definizione: si riconosceva una figura minuta, elegante, sulla quarantina, capelli neri perfettamente pettinati. Si riusciva anche a scorgere la famosa arma dorata, una bella Walther PPK.

«Pronto Fabien. Ciao… Ho bisogno di un mandato di cattura internazionale. Sì, ti sto mandando una foto… No, non conosciamo il nome. Già che ci sei, fai spedire l’immagine del sospettato anche alle dogane, alle stazioni principali e agli aeroporti europei… vediamo se la fortuna continua ad assisterci».

La chiave di Dante
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