Capitolo 64

 

 

 

 

 

Aeroporto di Ciampino, 4 gennaio. 19:52.

 

L’aria era gelida e una forte pioggia batteva insistentemente la pista. Il Challenger 850, noleggiato appositamente per l’occasione, era fermo, le luci nella cabina accese. Poco lontano era comparso un veicolo con il logo ADR, il gestore del terminal riservato solo a voli privati.

Una luce lampeggiante, sistemata sotto la cabina di pilotaggio, rischiarava a tratti la scaletta già posizionata davanti al portellone.

Julia era immobile, con le braccia conserte, fradicia, avvolta in una tuta da motociclista di pelle nera.

Aveva appena terminato di compilare i documenti per il viaggio. Nonostante infatti il terminal fosse destinato soltanto alla clientela business, la dogana aveva richiesto decine di firme e un malloppo considerevole di carta.

La pratica era risultata più complessa del previsto anche a causa dell’unico passeggero del volo, un italiano gravemente malato che sarebbe arrivato da lì a pochi minuti.

Julia scrutò oltre le porte scorrevoli dello scalo e finalmente vide comparire due hostess vestite di blu con un grosso ombrello in mano. Dietro di loro sbucò, con un sorriso appena accennato, Nigel Sforza che spingeva con delicatezza una sedia a rotelle. Sopra c’era Manuel Cassini, immobile, con gli occhi aperti e uno sguardo atterrito.

Julia gli andò incontro, incurante della pioggia, e strinse la mano all’ispettore.

«Se è tutto ok, attendiamo il via della torre e decolliamo», disse poi rivolgendosi a una delle due ragazze che avevano scortato il malato.

«Ancora una firma», chiarì la più bassa. Impacciata dall’ombrello e dai continui scrosci d’acqua, porse a Julia una cartellina e una penna.

La ragazza fissò il documento in silenzio.

Per un istante, Sforza temette che gli incaricati della dogana fossero riusciti in qualche modo a scoprire che i documenti predisposti erano falsi.

Trascorsero dieci interminabili secondi. Poi Julia tracciò il suo scarabocchio sul documento e lo riconsegnò alla ragazza. Sforza tirò un sospiro di sollievo.

«Fate buon viaggio», concluse l’hostess prima di trotterellare di nuovo all’asciutto, in compagnia della collega.

«È sicura che la roba che gli avete dato non lo lascerà paralizzato?», gemette Sforza, appena si fu assicurato che sulla pista erano rimasti solo loro due e la carrozzina. «Il suo collega gli ha piantato nel collo una siringa grossa come un tubetto di dentifricio».

«Non sono problemi suoi», tuonò Julia, che per un istante incrociò lo sguardo con quello di Cassini. «Pensi piuttosto a prendere l’assassino di Meredith Evans, che poi è lo stesso di Cavalli Gigli. È pagato per questo, no?»

«Temo che quell’indagine si sia arenata…», ammise l’ispettore con un mezzo sorriso.

«Cerchi un giapponese con un occhio verde e uno marrone e avrà il suo assassino». La bionda dette l’ultima occhiata a Sforza e poi afferrò le maniglie della sedia a rotelle, pronta ad andare verso l’aereo.

Il professore provò senza successo ad aprire la bocca e a protestare, urlare… fuggire. Invano. Era come paralizzato, respirava normalmente, era cosciente, ma non riusciva a muovere neppure un muscolo. Solo le pupille guizzavano nervose da destra a sinistra, nel tentativo disperato di chiedere aiuto a qualcuno. Ma non c’era nessuno.

«Un momento… aspettate!».

Sforza si voltò di scatto. Una delle due hostess stava tornando indietro saltellando sui tacchi.

Julia si avvicinò alla donna e le sussurrò qualcosa.

Sforza trattenne il respiro… avrebbe dovuto lasciare Cassini fuori dall’aeroporto, come voleva lui, e non come gli aveva imposto Julia. Non era stato pagato per quello…

Nello sguardo del professore, nel frattempo, si accese una luce di speranza. Qualcuno aveva scoperto che l’avevano drogato e che lo stavano rapendo?

«Grazie. Molto gentile», riuscì solo a sentire.

Poi vide Julia che sorrideva alla hostess e prendeva il passaporto.

«L’aveva dimenticato…».

Sforza tirò un nuovo sospiro di sollievo e poco dopo la sedia che trasportava Cassini fu caricata nella cabina del Challenger.

Appena prima che il portellone si chiudesse, il professore riuscì a vedere la bandiera italiana e quella europea sventolare sotto la pioggia.

Avrebbe voluto urlare. Ma non poteva.

La chiave di Dante
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