Capitolo 59
Venezia, 4 gennaio. 16:41.
Il motoscafo Chris Craft Crowne 26 attraccò al molo di San Zaccaria, nei pressi dell’hotel Danieli, con un tonfo sordo.
Dalla laguna soffiava un’aria gelida che trasportava un odore di cherosene misto ad acqua salmastra. Il mare era agitato e nero come la pece. Le onde rimbalzavano rumorosamente sulla riva degli Schiavoni e la risacca faceva sobbalzare le gondole legate ai piloni di legno del porticciolo.
L’uomo intirizzito, le gote rosse per il freddo, scese con un balzo dal fuoribordo e lanciò un’occhiata furtiva al pilota. «Aspetta qui!», grugnì. Poi fissò il cielo rossastro: gli ultimi bagliori del giorno si stavano spegnendo dietro l’isola di San Giorgio Maggiore.
Si voltò verso la città e zoppicando si avviò lungo il ponte della Paglia, dalla parte opposta rispetto a piazza San Marco. Nonostante fosse quasi buio, alcuni ambulanti sostavano con le loro bancarelle cariche di souvenir. Incrociò qualche turista, che con il trolley al seguito stava correndo verso il vaporetto proveniente da Murano, e proseguì con passo spedito.
Era un colosso di muscoli di centoventi chili, con il collo corto e nerboruto e una testa taurina. Portava i capelli castani tagliati corti e un pizzetto appuntito che lo faceva assomigliare a D’Artagnan.
Soprannominato il Toro, nessuno sapeva con esattezza quale fosse il suo vero nome e la sua nazionalità. Parlava un italiano grammaticalmente perfetto, ma alcune inflessioni ricordavano l’accento dei giocatori di calcio argentini.
L’uomo che l’aveva contattato quattro giorni prima conosceva molto bene le sue doti: in vent’anni di carriera il Toro aveva ucciso più di duecento persone.
Un aspetto nella media, un lavoro normale, sposato e con due figli: un uomo comune, più che un killer professionista. E così, a partire dalla fine degli anni Novanta, aveva conquistato la fiducia di mafiosi, narcotrafficanti e di chiunque altro avesse conti in sospeso con un prossimo poco fortunato.
La sua specialità era strangolare le sue vittime con un filo elettrico, un’arma che gli consentiva di viaggiare indisturbato senza preoccuparsi dei metal detector. In caso di necessità era però capace di fare soffrire le sue vittime: una volta aveva amputato a una donna prima le orecchie e poi un dito al giorno, in attesa che i familiari pagassero il riscatto. In un altro caso aveva immerso in acqua bollente le gambe e le braccia di un uomo, che poi si erano staccate dal tronco con uno sforzo minimo.
Poi, senza un’apparente ragione, aveva scoperto Dio, si era pentito e aveva deciso di cambiare vita. Ma un lupo, per quanto si sforzi di diventare una pecora, resta sempre un lupo… e quella era la ragione per la quale gli avevano chiesto di precipitarsi a Venezia.
Giunto all’altezza della calle del Dose voltò a sinistra, in un cunicolo scuro, poco più largo delle sue spalle. Dopo qualche passo sbucò in campo Bandiera e Moro, una piazza grigia, dalla forma di uno strano pentagono.
Si guardò intorno e si diresse alla chiesetta templare di san Giovanni Battista in Bragora. Bussò al pesante portone e quasi all’istante un omino ricurvo, che sembrava cieco da un occhio, gli aprì la porta.
«Sono atteso», esclamò con la sua pronuncia sibilante.
L’ometto non batté ciglio. Si limitò a osservare la spilla con la croce rossa affrancata al bavero della giacca del Toro e lo fece entrare.
Dopotutto, forse, vedeva a sufficienza…
Alcuni minuti più tardi, era seduto in un’antica biblioteca con alti soffitti gotici e finestre strette e lunghe. Un caminetto acceso scoppiettava sul lato corto e dalla parte opposta un grande scaffale carico di pergamene copriva l’intera parete di mattoni a vista.
«Grazie per essere venuto così presto, fratello». L’uomo, forse di una settantina d’anni, aveva una chioma candida perfettamente pettinata. Indossava i pantaloni di un anonimo completo scuro e una camicia bianca con le iniziali E.C. sotto il taschino. Le maniche, ripiegate sugli avambracci, rivelavano una pelle grinzosa. «È ancora per il Sex dierum iter. I papiri nascosti dai templari potrebbero essere più vicini di quanto ci aspettassimo».
Il Toro annuì. Aveva davanti il Gran Maestro, un uomo al quale avrebbe donato anche la sua vita. Era la persona che pochi anni prima l’aveva aiutato a uscire dal vortice di violenza in cui era stato risucchiato… Ma la stessa che, in nome della fratellanza, sei mesi prima gli aveva chiesto di ritornarci.
«La ricerca è ricominciata. Questa volta non conosciamo la destinazione esatta», esclamò, indicando con l’indice una cartina sulla sua scrivania. «Rispetto a quando ci siamo sentiti, però, ho maggiori informazioni: chiederanno permessi per scavi archeologici lungo il corso dei fiumi Blákvísl e Jökulfall… fino ad arrivare qui». Picchiettò in un punto nella zona nord ovest dell’Islanda e tornò a guardare il Toro. «Alla cascata Gýgjarfoss».
«Quando devo ripartire?», si limitò a chiedere lui, fissando sulla mappa lo strano disegno simile alle gobbe di un cammello, che segnava il corso dei due fiumi.