Capitolo 54

 

 

 

 

 

Dubai, 3 gennaio. 19:15.

 

Il richiamo del muezzin lo strappò improvvisamente ai suoi sogni agitati.

Joonas Eklöf, un omaccione con lunghi capelli biondi e una folta barba, si rigirò tra le lenzuola del suo letto king size e provò a riaddormentarsi. Ma non ci riuscì. Era spossato per il viaggio e per il fuso orario e i pensieri che lo affliggevano erano più forti del sonno.

Si mise seduto sul letto e si strofinò gli occhi.

Quella città era incredibile, esattamente come l’hotel nel quale la società di Al Husayn gli aveva prenotato il soggiorno: Atlantis The Palm. Era una costruzione enorme. Ispirata al mito di Atlantide, dominava il frangiflutti della Palma Jumeira, la penisola artificiale costruita sulla costa di Dubai. Lì, tutto era studiato per impressionare il turista: dal Dolphin Bay, il delfinario dove si poteva nuotare accanto ai delfini, fino all’immenso parco acquatico.

La suite in cui era stato alloggiato Eklöf occupava una superficie di mille metri quadrati. C’erano quattro camere da letto, una sala svaghi, una palestra e persino una stanza in cui si potevano osservare i pesci dell’acquario standosene sdraiati sul divano.

L’archeologo si alzò in piedi. Sembrava un elefante in una cristalleria. Andò alla finestra e osservò lo skyline illuminato della città. I riflessi dei grattacieli di vetro e cemento si muovevano sinuosamente nelle acque nere del golfo.

Lì accanto, sistemati disordinatamente su uno scrittoio, c’erano alcuni rotoli di carta e i progetti dello scavo, chiuso ormai da alcuni mesi.

Quella campagna ai piedi del ghiacciaio Langjökull era stata un insuccesso di cui sentiva la responsabilità.

Tutto era cominciato ai tempi dei Cavalieri di Malta. L’idea era venuta allo sceicco leggendo il Sex dierum iter, l’antico documento che lo stesso Eklöf stava studiando quando si erano conosciuti a Venezia. Erano stati necessari molti anni, ma incrociando le informazioni della pergamena con antiche leggende islandesi, l’amico aveva individuato il luogo dove cercare: le sponde del fiume Jökulfall.

L’estate precedente avevano quindi organizzato un’imponente campagna archeologica. Nonostante i calcoli fossero corretti, però, un’intera stagione di scavi non aveva portato ad alcun risultato.

Da quel che sapeva, il suo amico Mohamed bin Saif Al Husayn era rimasto molto deluso. Le difficoltà però lo avevano spinto a continuare in quella che era diventata la sua ragione di vita. Sua e della moglie.

I triangoli astronomici che gli avevano permesso di individuare il luogo erano diventati un emblema. Lo sceicco aveva fatto realizzare un bracciale in oro sul quale erano incisi quei disegni geometrici e una frase: “La felicità più grande non sta nel non cadere mai ma nel risollevarsi sempre dopo una caduta”. Quel semplice oggetto simboleggiava, per lui e per la moglie, un nuovo punto di partenza. Una fenice da cui rinascere.

Ma per cosa?

Nessuno sapeva esattamente ciò che lo sceicco stesse cercando in Islanda. Proprio per quella ragione, quando poco prima di Natale la segretaria di Al Husayn l’aveva invitato a Dubai, Eklöf si era allarmato.

Era possibile che avesse saputo dell’uomo che si faceva chiamare il Toro?

No, non era possibile. Era stato molto attento. Da quando, nel mese di settembre si era chiuso lo scavo sul fiume Jökulfall, nessuno l’aveva più ricontattato.

Per quale motivo era stato invitato allora? Non gli risultava che ci fossero altri luoghi in cui scavare, almeno non alle coordinate che gli erano state fornite.

Non potendo rifiutare, perché era l’unico tra i Cavalieri di Malta di cui Mohamed si fidava, aveva però comunicato a Venezia la sua intenzione di andare dallo sceicco. Per essere pronto a tutto, aveva portato con sé anche le mappe della campagna estiva. Si trattava di quattro rotoli di carta, cartine lucide e numerosi file caricati sul suo iPad: documenti che gli avevano tolto il sonno. E di cui si sarebbe voluto liberare il prima possibile.

Joonas Eklöf osservò l’orologio: aveva ancora più di un’ora. Andò in bagno, si fece una doccia fredda e poi si vestì. Infilò un paio di pantaloni bianchi di lino e una camicia azzurra con le maniche arrotolate. Lui, che era abituato ai bermuda anche d’inverno, si sentì come un confetto impacchettato.

Poco dopo era su un taxi diretto verso il centro della città.

Fino a quel momento non si era reso conto delle dimensioni di Palma Jumeira. Il frangiflutti sul quale sorgeva il suo hotel si estendeva a mezzaluna sopra le fronde della palma per diversi chilometri. Le luci sfavillavano nel buio e non si riusciva a vederne la fine. Il tronco della palma, che stava attraversando in quel momento, era solcato da un’autostrada a sei corsie, con un passante ferroviario sopraelevato al centro. Ogni ramo dell’immensa pianta di sabbia e cemento – quattordici in tutto – era lungo più di un chilometro, popolato di centinaia di villette con spiaggia e piscina privata.

Eklöf osservò l’autista, un pachistano che parlava un inglese perfetto, e domandò: «Ci vorrà molto?».

L’uomo lo fissò dallo specchietto retrovisore e gli sorrise. «Se guarda diritto davanti a sé, lo può già vedere. È quel grattacielo illuminato d’oro… quello che spicca su tutti gli altri».

Il finlandese alzò lo sguardo e, oltre una serie di torri, cominciò a distinguere la sommità lucente del Burj Khalifa.

Il taxi si destreggiò nel traffico serale e si diresse verso il Business Village.

 

Alle nove in punto, Joonas Eklöf era seduto nella grande sala riunioni del suo vecchio amico Mohamed bin Saif Al Husayn. In silenzio giocherellava con l’anello dei Crociati di Malta che aveva ottenuto, insieme allo sceicco, molti anni prima.

«Ti faccio le mie condoglianze», esordì, lo sguardo basso.

Lo sceicco non rispose. Dopo qualche istante la voce elettronica del suo computer sintetizzò il suo pensiero. «Era la perla più preziosa del mio harem».

Eklöf annuì, stringendosi nelle spalle.

«Era la moglie migliore che avessi mai avuto. Questo progetto era anche suo. È grazie a lei se oggi siamo al punto in cui siamo».

“Un punto morto”, si augurò Joonas guardando i rotoli che aveva portato con sé.

«Ti ho fatto venire qui perché ho bisogno delle tue conoscenze tra le alte sfere del governo dell’isola. E questa volta sarà più complicato dell’estate scorsa».

Il gigante biondo deglutì, timoroso, e alzò lo sguardo. Sapeva che le ricerche di Al Husayn erano proseguite anche dopo l’insuccesso dell’estate precedente, ma era convinto che non avrebbero portato a nulla. Almeno così aveva sperato.

«All’inizio di dicembre abbiamo cominciato un esperimento molto promettente. Lo stesso per il quale la povera Meredith è stata uccisa…».

Dietro lo sceicco, sul grande schermo OLED curvo appeso alla parete, comparve l’immagine di un affresco. «Questa è l’Ultima Cena di Leonardo da Vinci», continuò. «Vedi le figure di Gesù e di Giovanni, seduto alla sua destra? Sono molto distaccate tra loro, troppo distanti. L’apostolo è in una posizione anomala, innaturale, quasi volesse lasciare più spazio del necessario tra lui e Cristo».

L’archeologo osservò con attenzione l’immagine del Cenacolo che si avvicinava in uno zoom rallentato. In effetti, le figure degli apostoli, disposte in quattro capannelli, non occupavano l’affresco in maniera uniforme. La ragione era sui libri d’arte, ovvero la volontà del pittore di ritrarre una scena di vita in un momento normale. Ogni personaggio stava facendo qualcosa di ben preciso che rispecchiava la sua condizione psicologica. Da quanto sapeva, la posizione degli apostoli era stata una scelta artistica ben precisa… non un’anomalia.

«Osserva la testa di Giovanni».

In quell’istante, il quadro si animò e una linea azzurra cominciò a dirigersi da sinistra verso destra, spostandosi lungo il confine che divideva i capelli dell’apostolo dalla fronte. La linea scese lungo la spalla e il braccio e arrivò a incrociare la mano di Gesù. Da lì cominciò a risalire, sempre seguendo il contorno dei personaggi sul dipinto.

Quando l’animazione terminò, sovrapposto all’affresco c’era uno strano disegno:

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«Cosa sto guardando?», si informò l’archeologo, innalzando un sopracciglio.

«Non lo riconosci?», gracchiò il sintetizzatore vocale di Al Husayn.

«No».

Un istante dopo, l’immagine dell’Ultima Cena scomparve, lasciando solo quella strana rappresentazione grafica. Al posto dell’affresco apparve, sovrimpressa, una mappa satellitare. Si vedeva quello che sembrava il corso di un fiume.

«Ma…». Il viso dell’archeologo sbiancò di colpo. Era incredulo. «È quello che penso?»

«L’immagine è un ingrandimento tratto da Google Maps. Ciò che stai vedendo è il corso del fiume Blákvísl, l’affluente più occidentale del Jökulfall. Come puoi notare, entrambi hanno origine dalla cascata del Gýgjarfoss».

«Ma è incredibile… il corso dei fiumi…».

«Lo so», sottolineò lo sceicco osservando le linee esattamente sovrapposte. «La cascata è posizionata più o meno sul collo di Gesù. Da lì un affluente sale seguendo il contorno del suo volto e l’altro scende lungo il braccio, per poi risalire su quello dell’apostolo alla sua destra».

Al Husayn aveva ragione. Il corso dei due fiumi, che si biforcava sulla cascata Gýgjarfoss, era identico alle linee tracciate sul quadro di Leonardo.

«Ma cosa significa?». L’archeologo si alzò di colpo e si avvicinò al monitor. Nonostante tutto era eccitato. «Questo è il luogo in cui abbiamo scavato», gli fece notare, indicando con la penna un punto sul corso del fiume, all’altezza della mano dell’apostolo Pietro.

«Sì, nel dipinto è poco sotto la fronte di Giovanni. Dista due chilometri e cinquecentonovanta metri dalla cascata, per la precisione».

«Significa che le coordinate erano sbagliate?».

Lo sceicco indugiò per un secondo. Quello che stava per dire gli era costato mesi di riflessioni, milioni di dollari in ricerche e la vita di sua moglie Meredith.

«No. Le coordinate erano corrette!».

Eklöf allargò le mani in segno di rassegnazione.

«Significa che la mappa è più complessa di quanto immaginavamo». Lo sceicco lo fissò dritto negli occhi e per un istante il sintetizzatore vocale tacque. «Ma adesso le cose si sono messe come avevamo programmato. Entro pochi giorni avremo la chiave per decifrarla».

La chiave di Dante
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