Capitolo 74

Reykjavik, 15 gennaio. 10:30.

Dici giorni dopo la scoperta delle coordinate.

La prima cosa che il Toro aveva visto al suo arrivo nella capitale islandese era stato il poster affisso sopra l’ufficio informazioni turistiche dell’aeroporto: “Se vuoi conoscere qualcuno a Parigi frequenta le brasserie, a Londra vai in un pub, ma se vuoi incontrare qualcuno a Reykjavik vai nella piscina comunale”.

Lui l’aveva fissato e memorizzato e, due giorni dopo il suo arrivo, era andato in una delle nove piscine della città. C’era arrivato in una mattina ancora travestita da notte, con la luce dei lampioni che si rifletteva sui sampietrini e il cielo che cominciava a striarsi di rosso. Il sole sarebbe sorto entro breve tempo, per poi rituffarsi nell’oceano dopo solo sei ore di pallida luce. L’inverno islandese era anche quello.

Scese una scala di marmo con le pareti arancioni, macchiate in più punti d’umidità. Varcata una porta a vetri, si trovò in un locale adibito a palestra. Alla sua destra, lungo il muro, c’erano quattro biciclette da spinning. Dalla parte opposta, dove la stanza si apriva, erano allineati numerosi attrezzi per i pesi, un arcobaleno di alluminio ed ecopelle nera.

Il Toro, asciugamano legato in vita, proseguì fino alla sauna. Quando aprì la porta di legno fu aggredito da un caldo infernale.

Joonas Eklöf era già lì, solo, sudato, con la pelle paonazza e la barba fradicia. Anche lui aveva un asciugamano intorno alla vita ma era aperto.

«Non riuscirò mai ad abituarmi a giornate così corte», bofonchiò il Toro, con il suo accento sudamericano, mentre si accomodava accanto al finlandese.

«D’estate migliora…», replicò l’archeologo, che non era per nulla contento di essere lì ma che restava fedele a un giuramento fatto molti anni prima.

«Io sono arrivato da due giorni e già mi pare d’impazzire! Allora… ti sono state comunicate le coordinate?»

«Sì. Ho ricevuto la chiamata che aspettavo da Dubai la settimana scorsa».

«Hai già inoltrato le richieste di scavo?», si informò il Toro strofinando il braccio sulla fronte già sudata.

«L’avevo già fatto per l’intera zona, come mi aveva chiesto lo sceicco», ammise Eklöf, una punta di nervosismo nella voce. «Ho solo dovuto circoscrivere la richiesta alle coordinate definitive».

«E dove andiamo questa volta?»

«Mi hanno indicato la zona nei dintorni della cascata di Gýgjarfoss, a sei ore di macchina da qui».

Il Toro non rispose e sbuffò con foga. «Quando arriveranno gli arabi?», chiese infine.

«Fra due settimane, all’inizio di febbraio. Abbiamo appena il tempo per preparare la squadra».

«Bene». Poi si diresse alla porta della sauna. «E scegli persone fidate».

Eklöf annuì.

Per un istante i due rimasero in silenzio. Il sudamericano appoggiò la testa al supporto in legno e chiuse gli occhi.

«Posso farti una domanda?», disse poi l’archeologo, la voce imprevedibilmente acuta.

Il Toro si voltò e lo fissò.

«Stiamo facendo la cosa giusta?»

«I papiri non devono cadere in mani sbagliate», ruggì l’altro con un mezzo sorriso.

I papiri.

Era la prima volta che il Toro li definiva in quel modo… Si domandò che cosa fossero realmente e cosa avessero a che fare con il Sex dierum iter.

Eklöf deglutì; qualunque fosse l’oggetto delle loro ricerche, in quel momento la cosa che più gli premeva era comunque un’altra: «Puoi promettermi che non morirà nessuno?»

«No!».