Capitolo 34

 

 

 

 

 

Parigi, 2 gennaio. 11:09.

 

“Di tutte le trentasei alternative, scappare è la migliore”. Era un antico proverbio cinese e Cassini, vedendo i suoi occhi a mandorla, doveva averlo preso alla lettera.

Tanaka sbuffò e spalancò lo sportello dell’auto. Ripose la pistola nella giacca e si fiondò giù per le scale della metropolitana.

Raggiunto il sottopassaggio si fermò sull’ultimo gradino. Scrutò a destra e a sinistra in cerca del giovane. Lo individuò sotto il cartello della linea 1, quello con l’indicazione Château de Vincennes. Stava correndo verso la scala mobile. Tra loro c’erano decine di pendolari e di turisti che occupavano il corridoio.

Alzò il dito indice in direzione dei suoi uomini e poi riprese a correre.

Mentre a grandi falcate si muoveva nella stessa direzione del professore, Cassini lo sorprese: si avvicinò ai tornelli che delimitavano la zona di accesso ai treni e, invece di fermarsi, saltò la sbarra con l’agilità di un atleta dei centodieci ostacoli.

Si udirono delle urla e il giapponese si distrasse per un solo istante. Fu sufficiente però a fargli perdere il contatto visivo con il professore, che nel frattempo si era addentrato nel corridoio di destra.

Tanaka diede uno spintone a una donna che procedeva lentamente, facendole cadere le borse della spesa. Qualcosa si ruppe e cominciò a rotolare sul pavimento. Dopo un secondo, la sua corsa si bloccò di nuovo, questa volta contro un passeggino: lo vide solo all’ultimo istante e, nel tentativo di evitarlo, inciampò andando a sbattere la testa contro uno dei supporti di ferro delle biglietterie.

 

Cassini si voltò di scatto.

Uno dei suoi inseguitori sembrava si fosse fermato al di là dei tornelli. Immaginava però che non fosse da solo…

Continuò a correre a perdifiato, infilandosi nell’angusta scala mobile che si inabissava fin nelle viscere della città. Davanti a lui gli altri passeggeri erano immobili, alcuni confabulavano amabilmente, la maggior parte armeggiava con gli smartphone. Cominciò a scendere a piedi. Divorò i gradini a due a due, infilandosi tra la gente e chiedendo permesso. Qualcuno imprecò.

Poi, improvvisamente, si bloccò. Sotto di lui, sulla scala mobile opposta, quella che risaliva, individuò altri due inseguitori. Erano ancora lontani e forse non l’avevano visto. Loro invece si erano fatti notare perché procedevano a spintoni esattamente nella sua direzione.

Non aveva scelta, se avesse continuato la discesa sarebbe caduto dritto tra le loro braccia.

Si fece coraggio e saltò sulla balaustra. Per qualche istante rimase in precario equilibrio tra le due scale mobili. Si aggrappò con le mani a un poster pubblicitario e si buttò sulla scala mobile opposta. In quel punto c’era poca gente. Gettò uno sguardo sotto di lui: i due uomini in abito nero erano a meno di dieci metri. Dovevano averlo certamente notato perché avevano accelerato l’andatura guadagnando terreno.

Ricominciò a salire, e in pochi istanti fu nuovamente al punto di partenza, in cima alla scala mobile, indeciso sulla direzione da prendere. L’orientale con la voce di Gandalf non c’era, o almeno lui nella confusione non lo vide. Individuò invece il cartello che segnava la direzione per La Défense e lo seguì.

Ricominciò a correre. Il vano che scendeva era largo, con un corrimano rosso nel centro. Si catapultò giù per i gradini e quando fu circa a metà, tra le decine di voci ne individuò una: «Si fermi!». Avrebbe giurato che fosse sempre lui, il giapponese affetto da eterocromia. Il suo tono autoritario non lasciava dubbi.

Cassini però non si fermò. Scese fino in fondo e si trovò di fronte ai binari del métro. Trascorsero pochi istanti e tutte le sue paure si materializzarono nel viso trafelato di Tanaka. L’uomo sbucò dalla scala e lo individuò senza difficoltà.

Sulla banchina non c’era praticamente nessuno e il giapponese era a pochi metri da lui.

Non aveva scampo… a meno che…

Sul binario opposto stava arrivando il treno bianco e verde diretto verso la stazione Louvre Rivoli, almeno stando alla grande insegna lampeggiante appesa al soffitto.

Cassini non si fermò a riflettere.

Saltò giù dalla banchina e cercò di attraversare le rotaie, intenzionato a correre sull’altro marciapiede. Fece solo qualche passo e dopo poco fu costretto a fermarsi, perché il risvolto dei pantaloni rimase impigliato tra i binari. Diede uno strattone deciso e la stoffa si lacerò. Nonostante tutto era sempre intrappolato. Una voce femminile, in lontananza, si mise a strillare. Cassini osservò il convoglio sopraggiungere a tutta velocità. Non si perse d’animo: tirò a sé la gamba, aiutandosi anche con le mani. Provò una seconda volta e finalmente riuscì a liberarsi.

La metropolitana, intanto, era a pochi metri. Cassini corse a testa bassa. Si mosse dando fondo alle sue ultime energie e incespicando sui binari.

Raggiunse la banchina opposta e, sotto lo sguardo stupito di alcuni passeggeri, riuscì ad arrampicarsi. Infine rotolò lontano, pochi istanti prima che il treno sopraggiungesse.

Rimase sdraiato per terra per qualche istante, poi, non ancora sicuro di avercela fatta, si alzò in piedi circospetto. Attraverso i vetri del vagone vide il giapponese sulla banchina opposta: adesso stava correndo. Si dirigeva verso la locomotiva, forse con l’intenzione di attraversare anche lui i binari.

Ma non fece in tempo, quando aveva quasi raggiunto la fine della banchina, dal budello nero della galleria emerse un’altra motrice che gli tagliò la strada.

Cassini tirò un sospiro di sollievo.

Le porte scorrevoli si aprirono ed entrò nella carrozza.

Trascorsero dieci interminabili secondi. Poi venti.

Il professore controllava la scala mobile, dalla quale si aspettava di veder sbucare i complici del giapponese. E purtroppo non si sbagliava.

Due uomini comparvero dal corridoio e si diressero verso le porte ancora aperte del vagone.

Questa volta, però, la fortuna girò a suo favore. Le porte si richiusero proprio un istante prima che i due riuscissero a entrare.

Ma il treno non partì. Due secondi. Tre. Cinque.

Cassini chiuse gli occhi, sicuro che da un istante all’altro il macchinista avrebbe fatto entrare i due ritardatari… Ma non accadde.

La metropolitana ripartì e imboccò la galleria.

 

Quindici minuti dopo, Cassini riemerse dagli inferi. Era sceso alla stazione di Charles de Gaulle Étoile e si era ritrovato proprio sotto l’Arco di Trionfo.

Il vento gelido sembrava essersi fermato di colpo così come la debole nevicata. Le auto scorrevano frenetiche attorno al monumento che celebrava le vittorie di Napoleone.

Fino a quel momento era stato guidato dall’istinto di sopravvivenza. Ma adesso che era scampato al pericolo, come doveva comportarsi? Cosa doveva fare?

Mentre camminava lungo gli Champs-Élysées cominciò a riflettere sui flashback: non sapeva come, ma erano connessi a quanto gli stava accadendo. Era possibile che, in qualche modo, quelle visioni e quei ricordi rappresentassero una sorta di mappa da seguire?

Seguendo quel ragionamento, non poté fare a meno di ripensare al suo Dante, e a quei versi del Purgatorio che recitano: «E aggi a mente, quando tu le scrivi, di non celar qual hai vista la pianta ch’è or due volte dirubata quivi». «E ricorda, quando scriverai, di non tacere come hai visto la pianta, derubata per ben due volte».

Il significato di quei versi era stato uno degli spunti più importanti del Segreto dei pittori maledetti. Per la maggior parte degli studiosi, con il termine pianta il poeta si riferiva all’albero del Giardino dell’Eden, il simbolo della giustizia divina. Per Cassini, però, il significato era molto diverso: il termine pianta andava interpretato non come albero, bensì come cartina: la “mappa” che l’avrebbe condotto nel paradiso terrestre.

Cinque anni prima, per arrivare a quella conclusione, il professore si era basato sull’interpretazione di un’altra terzina celebre del canto XXVII: «Dritta salia la via per entro ’l sasso verso tal parte ch’io toglieva i raggi dinanzi a me del sol ch’era già basso». «Dritta saliva la strada per il paradiso, e il sole già basso al tramonto proiettava la mia ombra davanti a me». In quegli endecasillabi il poeta sembrava voler fornire un’indicazione geografica precisa, con il sole basso a ovest e lui in cammino verso est. Da lì, l’ipotesi di Cassini che il termine “pianta” fosse stato usato come sinonimo di “mappa” per l’Eden.

A differenza del sommo poeta, lui in quel momento non era alla ricerca del Paradiso, tutt’altro. Il suo obiettivo era capire cosa significavano quelle visioni. Così sarebbe riuscito, forse, a salvarsi la vita…

Tornò quindi a riflettere: era ragionevole pensare che, in qualche modo, il suo subconscio gli stesse suggerendo una via di scampo? Era possibile che tutti i flashback che gli tornavano in mente poco alla volta rappresentassero una mappa per orientarsi nel labirinto della sua mente?

Decise che valeva la pena provare, anche perché sapeva di essere riuscito a sfuggire ai suoi inseguitori solo per un caso fortuito. Aveva avuto fortuna e lo sapeva molto bene; qualunque fosse la ragione per la quale quegli uomini lo avevano inseguito, era certo che ci avrebbero riprovato… e in tal caso difficilmente sarebbe riuscito a sfuggire loro di nuovo.

Davanti a lui, tra un negozio di Louis Vuitton e uno Lacoste, c’era la vetrina di un autonoleggio con l’insegna gialla della Hertz. Si guardò alle spalle e poi si infilò all’interno.

La chiave di Dante
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