Capitolo 72
Dubai, 5 gennaio. 19:10.
Manuel Cassini sedeva su una delle mille poltrone in pelle nera del gate 11 dell’aeroporto internazionale di Dubai. Era di fronte a una colonna di metallo che sorreggeva un atrio di undici piani e attendeva il suo volo per Heathrow. Da lì avrebbe preso una coincidenza per Fiumicino.
Si sentiva distrutto, nel fisico e nello spirito, e soprattutto era ancora incredulo. Nonostante le sue più fosche previsioni, nonostante l’avessero rapito e sottoposto a test di ogni genere, alla fine l’avevano lasciato andare. Al Husayn era stato di parola: dopo il loro ultimo colloquio gli aveva messo a disposizione un trolley con un cambio di abiti e una guardia del corpo: Julia.
Insieme, avevano raggiunto il Concorse A, la parte del terminal che la compagnia Emirates aveva fatto costruire per ospitare la sua flotta di Airbus A380.
La donna era stata sorprendentemente cordiale. Aveva parlato poco ma, durante il breve viaggio fino all’aeroporto, gli aveva sfiorato la mano più volte.
Cassini aveva cercato di ignorarla. Alla fine, però, quando si erano salutati, lei lo aveva stretto in un lungo abbraccio.
Cosa significasse non aveva intenzione di scoprirlo. Non più. Dopotutto però, forse, non si era sbagliato su di lei. Forse aveva provato qualcosa per lui, ma aveva scelto di apparire distaccata perché stava eseguendo gli ordini?
Il professore scosse la testa. Si lasciò andare sullo schienale e fissò le grandi vetrate sulla pista di atterraggio: un velivolo con la livrea bianca e la coda nera, rossa e verde stava atterrando.
Si mise una mano nella tasca della giacca e estrasse un rotolo di banconote da duecento euro: erano in tutto quindicimila. «Un piccolo risarcimento», lo aveva definito lo sceicco. Per assicurarsi che sarebbe tornato a casa sano e salvo.
Cassini aveva accennato un sorriso quando, insieme al denaro, Julia gli aveva consegnato anche il piccolo volume del Purgatorio del 1898. Non doveva avere un grande valore, ma il semplice fatto che l’arabo se ne fosse privato per regalarglielo, lo aveva fatto riflettere.
Si domandò se tutte quelle moine non avessero un secondo fine. Decise di no: dopotutto, se avessero voluto sottoporlo ad altri esami non lo avrebbero lasciato andare con quel carico di doni.
Per un istante, soltanto uno, il professore provò compassione per quell’uomo, attaccato a ogni più piccola speranza per guarire dalla sua malattia. «Sappia che abbiamo fatto un passo alla volta… tanti piccoli passi che credevamo ci avrebbero condotto alla meta», gli aveva detto prima di salutarlo. «Lei sa più di ogni altro che non mi sbaglio. Ciononostante le chiedo scusa».
Le chiedo scusa.
Si alzò per sgranchirsi le gambe, in attesa che gli addetti della Emirates cominciassero a imbarcare il volo. Prese il piccolo tomo del Purgatorio e cominciò a sfogliare pagine a caso. Era una bellissima edizione, con la copertina in pelle e le incisioni in oro. Anche l’impaginato era pregevole, con belle raffigurazioni dei paesaggi descritti da Dante.
Provò a riflettere su quante volte, negli ultimi giorni, gli erano venute in mente frasi casuali della Divina Commedia. Tante, troppe…
Raggiunse l’ultimo canto, per rileggere i versi più importanti, quelli che, cinque anni prima, l’avevano spinto a indagare sulle metafore del poeta.
“E aggi a mente, quando tu le scrivi, di non celar qual hai vista la pianta ch’è or due volte dirubata quivi”. “E ricorda, quando scriverai, di non tacere come hai visto la pianta, derubata per ben due volte”.
La sua idea di interpretare la parola pianta come se fosse una mappa era stata il cardine di tutto. Al Husayn, però, aveva trovato un nuovo modo di leggere quei versi, coordinandoli con le opere pittoriche del Cinquecento. Era inutile negarlo, le sue teorie, i triangoli astronomici, gli indizi nei quadri di Leonardo, Botticelli e Raffaello lo avevano affascinato.
Mentre passeggiava sui pavimenti lucenti del terminal, continuò a pensare. C’era anche un altro passaggio che gli stava molto a cuore. Quello che lui aveva sempre considerato la scintilla che lo aveva spinto comprendere più a fondo l’opera: l’unico punto in cui Dante, all’ingresso del Giardino dell’Eden, forniva indicazioni geografiche precise sul suo viaggio a Oriente. Nel canto ventisettesimo, il poeta diceva infatti che la strada per il Paradiso saliva dritta. Il sole stava tramontando alle spalle, e la sua ombra si stendeva davanti a lui. Un gioco di parole per dire che stava camminando verso est.
Individuò il canto e lo lesse
CANTO XXVII
64 Dritta salia la via per entro ’l sasso
verso tal parte ch’io toglieva i raggi
dinanzi a me del sol ch’era già basso.
«Dritta salia la via…», ripeté tra sé.
Poi si fermò di colpo. Per un istante credette di aver visto male.
Controllò di nuovo, voltando avanti e indietro la pagina con grande enfasi. La terzina che aveva appena letto era all’inizio del foglio e occupava i versi da sessantaquattro a sessantasei.
Possibile fosse così facile?
Riguardò il libro: l’edizione del Purgatorio recava all’inizio di ogni pagina il canto di riferimento, nel suo caso il XXVII. Casualmente, il passaggio che aveva appena riletto cominciava in una pagina nuova e riportava all’inizio della terzina il numero del verso: il sessantaquattro.
Poteva essere così semplice?
Cercò di ricordare l’immagine che raffigurava i fiumi islandesi, vista sullo schermo di Al Husayn. Nell’ultimo ingrandimento, quello in cui era segnato il punto di scavo, c’erano le coordinate esatte di latitudine e longitudine. Le seconde non le ricordava ma le prime, incredibilmente, sì: 64° 27’ 11”.
Sessantaquattro come il verso che aveva letto, ventisette come il canto ventisettesimo, undici come gli “endecasillabi” che compongono la Commedia.
Era possibile che le prime e uniche indicazioni geografiche fornite da Dante al suo arrivo nella divina foresta contenessero al loro interno anche delle coordinate?
Cassini tornò a sedersi, eccitato.
Se in quei versi c’era il riferimento alla longitudine, da qualche parte ci doveva essere un’indicazione anche per la latitudine.
Provò a riflettere… il cammino del poeta, dal suo ingresso nell’Eden fino all’incontro con Beatrice, era raccontato negli ultimi sei canti del Purgatorio. Spostandosi verso Oriente, Dante aveva incontrato figure enigmatiche come quella di Matelda. Aveva anche attraversato, in una simbolica processione, fiumi impetuosi e fitte foreste. Il suo punto d’arrivo era narrato nel canto XXXIII, l’ultimo: una fonte in cui si era immerso per purificarsi e dalla quale nascevano due fiumi, il Letè e l’Eunoè.
Sfogliò in avanti le pagine fino al canto XXVIII: «Già m’avean trasportato i lenti passi… ch’io non potea rivedere ond’io mi ’ntrassi». Quei versi – in cui il Poeta diceva di essersi addentrato a tal punto nella divina foresta da non riuscire più a vederne l’ingresso – gli erano già tornati in mente nei giorni precedenti. Nonostante non ci fossero indicazioni geografiche precise, lì si potevano scorgere riferimenti dei suoi spostamenti all’interno del giardino.
C’era anche un’espressione che non gli suonava affatto nuova: “Lenti passi”.
La parola “passi” gli era rimbalzata spesso in testa negli ultimi giorni. Aveva già riflettuto su quello stesso passaggio mentre era in macchina con Sforza.
Lenti passi. Piccoli passi.
A pensarci bene, anche lo sceicco si era espresso in quel modo… chissà se in modo casuale o meno.
Rifletté sui frammenti della Commedia che aveva ricordato nelle sue recenti visioni e ricominciò a sfogliare freneticamente il tomo. Si fermò al canto XXIX: ricordava bene anche quel passaggio e lo individuò immediatamente: «E io pari di lei, picciol passo con picciol seguitando». «Dove io a piccoli passi cominciai a seguirla».
Lo rilesse con calma più volte: era un’altra indicazione di movimento. Era il punto in cui Dante, dopo aver incontrato Matelda, comincia a seguirla all’interno del giardino per raggiungere la fonte e Beatrice.
I lenti passi lì erano diventati piccoli passi. Potevano rappresentare una sorta di unità di misura?
Non ancora convinto, sfogliò all’indietro il Purgatorio e si fermò su un altro verso abbastanza noto del XXVIII canto, il cinquantaquattro. Cominciava con «piede innanzi piede».
Piccoli passi, lenti passi, piedi.
Ecco la risposta a tutte le domande, quella che lo sceicco aveva definito “la chiave di Dante”.
Era per forza così: quelle indicazioni, seppur incomplete e frammentarie, erano un’unità di misura che andava solo decifrata.
Cassini si fermò a riflettere, a quel punto ne era certo: le coordinate rinvenute nel canto XXVII erano quelle del punto di ingresso nel giardino dell’Eden. Partendo da quel luogo il poeta forniva altri indizi per ricostruire il percorso esatto fino alla fonte, il punto di arrivo.
Certo, dal testo aveva individuato solo la latitudine, però il fatto che coincidesse con l’area in cui Al Husayn aveva scavato sei mesi prima era significativo. Non sapeva come individuare tra i versi il dato di longitudine. Se ci fosse riuscito, però, era sicuro che sarebbe arrivato nel luogo individuato per mezzo dei triangoli astronomici.
A quelle coordinate lo sceicco non aveva trovato nulla. E forse il motivo era proprio quello… avevano cercato nel posto sbagliato! Avevano scavato nel punto d’ingresso nel giardino dell’Eden e non alla fontana, quello d’arrivo.
Si costrinse a rimanere calmo, ma per l’eccitazione le mani cominciarono a informicolirsi. La sua mente era come un fiume in piena, incapace di fermarsi.
A quel punto si domandò se fosse possibile ricostruire il cammino esatto raccontato da Dante. Forse sì, ammesso di trovare tutti gli indizi sugli spostamenti contenuti negli ultimi sei canti del Purgatorio. Per farlo, però, c’era bisogno di una mappa dettagliata della zona… e soprattutto di qualcuno che avesse studiato la Commedia quanto, se non più di lui.
Solo così, partendo dalle coordinate del punto d’ingresso, sarebbe potuto risalire fino alla fonte, il luogo in cui, forse, era stato nascosto il segreto dei templari.
Cassini si alzò dalla sua poltroncina e senza riflettere ancora su ciò che stava per fare, raggiunse un militare di guardia all’ingresso di una sala VIP.
L’uomo non parlava inglese, ma fu sufficiente ripetergli più volte lo stesso nome per farsi accompagnare in una stanza di tre metri per tre.
Un funzionario in divisa con la faccia olivastra si sedette davanti a lui. «Quindi ha bisogno di parlare con lo sceicco Mohamed bin Saif Al Husayn?», gli domandò, con un sorriso ebete dipinto sul viso. «Potrei sapere perché?»
«Perché forse ho trovato un modo per salvargli la vita!».