Capitolo 18

 

 

 

 

 

Parigi, Capodanno. 10:36.

 

«Come si sente?». Nigel Sforza era seduto su una poltroncina di pelle, accanto al divano dove era sdraiato Manuel Cassini.

Il professore esaminò disorientato lo studio lussuoso nel quale si trovava. Era simile a quello di un avvocato o di un notaio. Dalle ampie finestre si scorgeva il giardino delle Tuileries e, oltre una nebbia fitta, la punta della torre Eiffel. Dedusse che doveva ancora trovarsi al museo del Louvre, forse in un ufficio di rappresentanza.

«Si è sentito male improvvisamente… Come le dicevo prima, sono l’ispettore Sforza dell’Interpol», fece ancora, porgendogli un biglietto da visita. Il suo tono era cordiale. Lo osservava con uno sguardo rammaricato. Sembrava sinceramente dispiaciuto, quasi lo svenimento di pochi minuti prima fosse in qualche modo colpa sua.

«Posso avere un bicchier d’acqua?». Cassini aveva la bocca impastata, che ancora sapeva di alcol. Vicino alla porta stazionavano due gendarmi e di fronte al divano, accanto alle finestre, c’erano altre due persone, un uomo e una donna. Indossavano una divisa marrone, forse erano della sicurezza del museo.

«Signor Cassini, se si sente meglio, vorrei farle alcune domande».

Una donna arrivò con una bottiglietta d’acqua e la porse al professore, che cominciò a sorseggiarla.

Come aveva detto di chiamarsi quell’uomo? Sforza dell’Interpol. Subito dopo aver sentito quel nome era svenuto. Non si era trattato di paura, ne era certo… il suo mancamento era legato alla droga che quella donna doveva avergli somministrato la sera precedente.

Nei minuti di incoscienza tra l’incontro con Sforza e il suo risveglio, la sua mente doveva aver continuato a elaborare le poche informazioni che possedeva. Adesso ricordava alla perfezione il viso di quella ragazza, conosciuta al bar del Ritz: era bellissima, pelle ambrata, labbra carnose e minigonna vertiginosa.

Non era andato a Parigi per fare conquiste, non dopo quello che era successo con Clarissa… però era successo. Era stata lei ad avvicinarsi. «Mi offre da bere?», aveva detto, sfiorandogli la mano appoggiata al bancone del bar.

Non ricordava molto della serata, qualche cocktail, poi la festa dell’ultimo dell’anno al ristorante e poi ancora quella donna. L’aveva portata nella sua suite e poi tutto si era annebbiato… ed era comparsa la barba incolta di Sforza davanti ai suoi occhi.

«Cosa vuole sapere?», si informò Cassini, facendo vagare lo sguardo oltre l’ispettore.

Sforza sorrise ed estrasse una stampa dal giubbotto: era una copia della stessa email che Cassini aveva lasciato all’hotel, quella dell’invito di Cavalli Gigli al Louvre. «Riconosce questo messaggio?».

Cassini gli lanciò solo un’occhiata e poi annuì.

«Me lo può spiegare?»

«È un invito. E io sono qui».

Sforza si grattò la fronte, poi provò a insistere. «Mi sa spiegare il motivo per il quale sull’invito c’è una frase di Dante? Com’era…? “O voi ch’avete li ’ntelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde sotto ’l velame de li versi strani”».

Cassini sorseggiò ancora un po’ d’acqua e si mordicchiò il labbro.

Perché la polizia era li? Si domandò se Cavalli Gigli fosse morto davvero. Decise di prendere tempo. Dopotutto, se avessero voluto arrestarlo per qualcosa lo avrebbero detto subito. O No?

«Si tratta di una delle terzine più conosciute dell’Inferno».

«Se i miei ricordi di scuola non mi ingannano, quella frase ci dice di andare oltre il significato letterale delle parole ma di cercare l’altro significato, quello metaforico».

«Più o meno è così», confermò Cassini con aria di sufficienza.

«Perché Cavalli Gigli le ha inviato quella terzina?». Sforza inasprì lo sguardo, come per saggiare la sincerità del giovane.

«Di sicuro per impressionarmi. Comunque dovrebbe chiederlo a lui».

L’ispettore restò impassibile cercando di interpretare quelle parole. «Temo che sarà difficile. È morto alcuni giorni fa».

Cassini scrutò oltre la finestra. Non sembrò sorpreso e l’ispettore dovette accorgersene. Fuori aveva cominciato a piovere e alcune gocce scorrevano lentamente sui vetri. «Sono in arresto?», chiese laconico.

«L’ha ucciso lei?».

Il giovane si assestò sul divano. Mentire era inutile. Decise di provare a collaborare, almeno per capire cosa fosse successo realmente. «A dire la verità non lo so. Ho come un buco di qualche ora, una specie di amnesia».

«Una specie di amnesia? È sicuro di non sapere dov’era il giorno di Santo Stefano?». Sforza ovviamente aveva già verificato e non esistevano prove che Cassini il giorno del delitto si trovasse a Firenze. Oltretutto, dai rilievi balistici, era evidente che il soprintendente era stato ucciso durante un cruento scontro a fuoco. Per quanto provasse a immaginare il professore parte del commando, lo riteneva fortemente improbabile.

Il giovane rifletté per alcuni secondi. «Il ventisei dicembre? A dire la verità, quello mi pare di ricordarlo abbastanza bene. Ero a casa, a Napoli».

«Qualcuno lo può confermare?»

«Non sono praticamente mai uscito durante le feste… Ma alcuni amici sono passati a farmi gli auguri. Credo che glielo potranno confermare».

Sforza decise di provare a spostare la conversazione su un altro degli elementi che ancora non era riuscito a inquadrare: «Immagino che su quella terzina di Dante siano stati scritti molti libri. Uno è Il segreto dei pittori maledetti?».

Il professore annuì.

«Me ne vuole parlare? Qual era il suo rapporto con Cavalli Gigli?»

«L’ho conosciuto cinque anni fa. Non eravamo particolarmente intimi. Ci siamo sentiti qualche volta… neanche troppo spesso. Auguri per le feste e per il compleanno, cose di quel tipo».

«Di cosa parlava il vostro libro?».

Cassini si sistemò sul divano. «Il libro parla di molte cose. Principalmente delle allegorie presenti in molti quadri realizzati tra il 1500 e il 1600. Io mi sono occupato della parte riservata a un pittore per certi aspetti molto enigmatico, Sandro Botticelli. Sapeva che aveva quasi un’ossessione per Dante Alighieri e alcuni dei suoi quadri richiamano la Divina Commedia

«E lei, da grande esperto di Dante, voleva saperne di più…».

«Conosce Robert John? È uno scrittore inglese che con le sue opere alla fine degli anni Ottanta ha ispirato quella parte del libro».

«No», ammise Sforza.

«Come certamente saprà, secondo la maggior parte degli studiosi della Commedia, il punto di partenza del viaggio di Dante, fuori dalla selva oscura, sarebbe nei pressi di Gerusalemme, nella valle di Giosafat».

L’ispettore sbuffò e incrociò le braccia.

«Se il punto di partenza del viaggio era così ben descritto ed esisteva veramente mi sono chiesto perché la candida rosa – l’anfiteatro dove risiedono le anime del Paradiso – dovesse essere un luogo solo immaginario. Ipotizzai che il punto d’arrivo di Dante potesse essere un luogo fisico, esattamente come quello di partenza».

«Nel vostro libro cercavate il Paradiso quindi?».

Cassini si mise a ridere. «Certo che no! Il nostro libro parlava di Tintoretto, di Caravaggio e anche di Botticelli. E del motivo per il quale il pittore fiorentino fosse così ossessionato da Dante».

Sforza estrasse un altro foglio e lo porse a Cassini: era la stampa delle Primavera del Botticelli, allegata alla email, quella con alcuni numeri impressi sopra la parte sinistra del quadro. «1, 4; 1000, 300, 10, 9; 3. Cosa significano?»

«Ha notato le dita dei personaggi? Vede? Ogni mano indica un numero diverso di dita. Io credevo che Botticelli, attraverso le figure del quadro, volesse suggerire una data: 14 marzo 1319».

«14 marzo 1319», ripeté dubbioso Sforza. «E cosa successe in quella data?»

«Era quello che volevo scoprire. Chiesi aiuto a Cavalli Gigli e a un monsignore, entrambi grandi esperti di Rinascimento».

«E la aiutarono?», incalzò Sforza.

«Purtroppo no. Vagliammo alcune teorie, da Dante templare a un ipotetico viaggio del poeta avvenuto in quella data… Nessuna, per quanto mi riguarda, mi diede la risposta definitiva».

In quel momento il cellulare di Sforza squillò.

L’agente dell’Interpol osservò il mittente su display e si alzò in piedi. Poi si avvicinò alla finestra, battuta da continui scrosci di pioggia. «Come? Quando è successo?».

All’altro capo del telefono una voce metallica parlò per alcuni secondi, poi fu ancora la volta di Sforza: «Come l’avete identificata?».

Cassini osservò in silenzio l’espressione di Sforza: da sorridente, in pochi attimi si irrigidì e divenne cupa.

«Un bracciale d’oro? Una serie di triangoli incastrati l’uno sull’altro?».

A quelle parole, sussurrate da Sforza nel cellulare, Cassini ebbe un sussulto.

Un bracciale d’oro con una serie di triangoli incastrati l’uno sull’altro… lo ricordava alla perfezione…

La chiave di Dante
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