Epilogo
Base di ricerca “Sito B”, 250 km a nord di Nairobi, Kenya.
La delegazione dell’NDRC, la Commissione Nazionale per lo Sviluppo e le Riforme Cinese, scese dalla scaletta dell’aereo sotto una pioggia torrenziale. Si era da poco fatto buio e nonostante l’acquazzone, tipico di quel periodo, c’era molto caldo.
Sotto la pancia del nuovissimo Jet Comac C919 li attendeva, con il motore acceso, un furgone con il logo GenARTIF.
«Ministro, ben arrivato», proclamò Xiaochen Zhao, in piedi sul piazzale con un grande ombrello nero in mano. Era avvolta in un anonimo impermeabile con il cappuccio ma il suo sorriso faceva risaltare gli occhi neri da predatrice.
«A che punto siamo?», esclamò Liang Zhenbing, mentre saliva in tutta fretta per evitare di bagnarsi. Se Xia era ancora al suo posto, nell’organigramma del ministero della Scienza e della Tecnologia, il merito era tutto suo. Era stato lui a proteggerla dopo il fallimento in Iran e sempre sua era stata la decisione di riconfermarla a capo del progetto. «Si tratta di un investimento ingente, troppo importante per cambiare capitano in corsa», aveva detto, di fronte alla commissione d’inchiesta di Pechino, sei mesi prima. «Le responsabilità non sono della catena di comando, ma sono dovute a inaccettabili ingerenze straniere. Ingerenze che andranno punite a tempo debito».
E così, anche grazie alle velate minacce per la stabilità internazionale, Xiaochen si era rimessa al lavoro. Aveva verificato che i reperti prelevati da Herman Van Buuren fossero adatti allo scopo e si era trasferita nel cuore dell’Africa.
«Abbiamo scelto questa zona per l’estrema facilità a reperire la materia prima», spiegò Xia sorridente, seduta accanto al ministro sul sedile posteriore. Nonostante non fosse più la sua amante da tempo, lui continuava a tenerla sotto la sua ala protettiva… Forse, anche per garantirsi che il progetto rimanesse assolutamente top-secret.
«Avete rispettato il budget», la rassicurò lui, fissando oltre i vetri bagnati gli edifici illuminati che si stagliavano sull’orizzonte. «E questo è un buon inizio».
«Con la stessa cifra stanziata per il Sito A, abbiamo potuto realizzare una base grande il triplo», aggiunse lei, orgogliosa. Poi indicò oltre il parabrezza del furgone, in direzione di una grossa struttura: era bianca e aveva la forma di una sfera poggiata su enormi piloni d’acciaio. «La nuova serra è costruita interamente in policarbonato e potrebbe contenere la cupola di San Pietro».
In quel momento, il mezzo voltò a sinistra, immettendosi in una strada soprelevata. Davanti, adesso, tra un passaggio dei tergicristalli e l’altro, si apriva uno spazio immenso, su cui sorgevano file di hangar che si perdevano nel buio.
«Sono sedici in tutto», dichiarò trionfante Xia, mentre a bassa velocità si immettevano in una rampa sotterranea. Parcheggiarono il furgone in un grande garage coperto, sorretto da colonne di cemento armato dipinte di giallo e gli occupanti si diressero in fila indiana agli ascensori.
«Quando saremo completamente operativi?», si informò ancora lui, mentre le porte metalliche dell’ascensore si chiudevano.
«Siamo all’ottanta percento. Saremo al cento percento a giugno, ma abbiamo già cominciato a testare una decina di varianti».
«Siete riusciti a limitare l’indice di mortalità?», chiese il ministro, con i suoi modi risoluti. Sembrava quasi si trattasse semplicemente di tagliare una voce del bilancio.
Xiaochen fu presa alla sprovvista da quella domanda. Per un istante fu tentata di mentire. Si rese però conto che la sua bugia sarebbe durata soltanto pochi secondi, cioè fino a quando le porte dell’ascensore si fossero aperte. «Se riusciremo a sintetizzare la giusta miscela di vegetali, per l’umanità sarà un grande passo avanti», si limitò a dire. «Ogni grande progresso scientifico richiede costi umani».
E in quel momento le porte scorrevoli si aprirono in un grande atrio di cristallo. In lontananza si udiva il ronzio di un neon e l’aria era impregnata da un fortissimo odore di disinfettante.
Il ministro parve quasi sorpreso dallo spettacolo che aveva di fronte e fece due passi incerti sul pavimento in vetro. Raggiunse una balaustra, anch’essa trasparente, e aprì la bocca, come per dire qualcosa. Ebbe l’impressione di trovarsi sopra un acquario: in basso, però, invece di vedere pesci in movimento, gli si parò davanti un immenso spazio pieno di donne. Erano tutte di colore, nude, immobili e ammassate direttamente sul pavimento, l’una accanto all’altra. Ciascuna era collegata a un tubo che scendeva dal soffitto. Qua e là si vedevano impiegati della base, avvolti in tute sterili con caschi e visiere, che spruzzavano le cavie con getti d’acqua.
«Non è il Ritz, ma nessuna di loro è cosciente», si sentì in dovere di aggiungere Xiaochen, quasi per giustificare quello spettacolo macabro. «Dopo l’incidente a Van Buuren abbiamo ritenuto che fosse meglio tenerle in coma farmacologico».
Il ministro continuò a osservare in silenzio. Per quanto volesse distogliere lo sguardo non vi riusciva, quasi attratto da quelle file di carne da esperimenti. «Quante sono in tutto?»
«Dovrei farmi dare i conteggi esatti… ma, una più una meno, circa cinquecento per ogni hangar. Senza il letto occupano meno spazio».
«Quindi, a regime, dovremmo avere circa ottomila cavie?», domandò, recuperando il distacco.
Xiaochen annuì, orgogliosa. «Più sono, prima otterremo il nostro risultato». Fece una pausa, fregandosi le mani e poi proseguì: «E poi siamo in Africa… Ci sono guerre, epidemie… nessuno le verrà mai a cercare».
Liang Zhenbing questa volta le sorrise, affabile. «Ogni grande progresso scientifico richiede costi umani», si ripeté, fissando oltre la vetrata.