16

 

 

 

 

 

Regione dell’Azerbaigian orientale, Nord dell’Iran. Nello stesso istante.

-62:29:48 alla deadline.

 

Stella riprese conoscenza che il sole era già alto. La Toyota era accartocciata su se stessa, un ammasso di lamiere contorte circondato da rocce e arbusti.

Si guardò attorno: l’autista e l’olandese sembravano svenuti, mentre la donna accanto a lei era in un lago di sangue. Rabbrividì: uno dei montanti dell’auto le fuoriusciva dallo stomaco e la bocca era spalancata in un’estrema smorfia di dolore.

Terrorizzata, volse lo sguardo altrove, verificando di essere tutta intera. Provò a muovere le mani, intorpidite dai sedativi, e ci riuscì. Si strappò il catetere dal braccio e cercò di liberare le gambe incastrate sotto il sedile anteriore.

Un dolore lancinante la costrinse a fermarsi. Sulla coscia destra si vedeva una macchia di sangue che partiva dall’inguine e si fermava quasi al ginocchio. Tastò la ferita con i polpastrelli, per valutarne la gravità, ottenendo il solo effetto di acuire il dolore.

Provò a muoversi di nuovo e dopo avere liberato l’altra gamba riuscì a sporgersi con il busto fuori dal finestrino. L’auto era completamente ribaltata quindi, cercando di vincere le lancinanti fitte alla coscia, provò a strisciare fuori di schiena. Ci riuscì dopo due tentativi e si trascinò per alcuni metri lontano dal veicolo.

La gamba le faceva molto male. Si domandò se la ferita non avesse intaccato l’arteria femorale.

“Dài Stella, ce la puoi fare”, si fece forza, muovendosi all’indietro e provando ad alzarsi in piedi.

Mentre cercava di aggrapparsi al tronco di un albero scrutò in alto, verso la montagna. A quanto pareva, la mulattiera si era letteralmente sbriciolata al passaggio dell’auto. Era decisamente fortunata a essere ancora viva.

Per un istante si domandò che fine avessero fatto le altre due Toyota. Ma non importava. La priorità adesso era fuggire e chiedere aiuto, prima che l’autista e l’olandese si svegliassero… sempre che fossero ancora vivi.

Si voltò di centottanta gradi, cercando d’orientarsi. Si trovava in una vallata verdeggiante, l’aria gelida e rarefatta. Aguzzò l’udito: si sentivano alcuni uccelli cinguettare e un suono simile al verso di un gabbiano. In lontananza si riusciva a udire lo scroscio di un corso d’acqua.

Non sembrava troppo distante, forse avrebbe potuto raggiungerlo.

 

Le due Toyota scampate alla frana avevano localizzato quasi subito la posizione esatta della terza auto.

Il terremoto dei giorni precedenti evidentemente doveva avere danneggiato anche la mulattiera, che era crollata al semplice passaggio del primo veicolo. E quello era il motivo principale per il quale non avevano ancora raggiunto i loro compagni: nella zona non c’erano altre strade.

«Da qui ho la visuale ostruita», disse alla radio un giovane dai capelli biondi tagliati a spazzola. Era a piedi, sul fianco della montagna, insieme a due militari e a una guida di Tabriz. «Procediamo ancora per un centinaio di metri».

«Dovrebbe essere dietro quel costone», chiarì una voce di donna.

La cordata scese per un altro breve tratto. Poi, il primo della fila si bloccò di colpo. «Eccola. La vedo», urlò gesticolando con la mano.

La Toyota era in fondo alla scarpata, accartocciata come una scatoletta di tonno e incastrata sotto alcuni arbusti.

«Herman è vivo?», domandò la donna nell’auricolare.

I quattro si avvicinarono lentamente, facendosi largo tra licheni e arbusti. La vallata era completamente al sole, anche se la temperatura era bassa. Poco distante c’era un camoscio che osservava la scena con distacco.

«La più giovane è morta», constatò uno dei militari appena giunto nei pressi del lunotto posteriore. Teneva l’AK-47 a tracolla e le mani appoggiate alla scocca della Toyota.

Dalla parte opposta si avvicinò il biondo, che si abbassò per vedere dentro l’abitacolo.

«Ce ne avete messo di tempo!», li apostrofò una voce tremolante.

«È vivo», gridò l’uomo. «Venite da questa parte. Herman è vivo!».

I due militari rifecero il giro dell’auto, incespicando nel terreno morbido, e si piazzarono davanti allo sportello. A parte un’escoriazione sulla fronte, sembrava che lo scienziato stesse bene. Gesticolava, indicando il finestrino. «Sono incastrato», sospirò lentamente. «Ma la ragazza è fuggita. Prima trovate lei!».

 

Stella camminava a fatica, appoggiandosi agli arbusti e alle rocce.

Ogni passo era più doloroso del precedente. I pantaloni del pigiama, che indossava ancora dalla sera prima, erano completamente impregnati di sangue. La ferita doveva essersi aperta di più, ma la stoffa era così appiccicata alla pelle che non riusciva a vederla bene.

Volse lo sguardo davanti a sé. Lì la vallata si stringeva, c’erano un prato tempestato di fiori gialli e sullo sfondo alcuni alberi ad alto fusto. Si vedevano anche diverse rocce scure coperte di muschio. Lo scroscio dell’acqua era sempre più vicino.

Improvvisamente udì una voce, dietro di lei. «Venite da questa parte. Herman è vivo!», annunciò qualcuno in inglese.

Erano i suoi inseguitori. Se avevano raggiunto l’auto si sarebbero accorti immediatamente che lei non c’era.

Aveva pochi minuti per fuggire. Ma per andare dove?

Si spostò di qualche passo ancora. Superò una serie di arbusti e si trovò in una piccola caldera, più bassa del terreno circostante.

Lo sciabordio proveniva da lì. Si sporse e tra le rocce vide uno zampillio. Era un torrente sotterraneo, che scorreva schizzando e spruzzando acqua gelata. Dalla sua posizione soprelevata, attraverso un’apertura nel terreno, se ne scorgeva solo una piccola porzione, ma non sembrava più profondo di un metro. Era come se stesse guardando un canale fognario da sopra un tombino.

«Da questa parte», gridò una voce, molto vicina, probabilmente dietro agli alberi.

Non aveva scelta. Non sarebbe mai riuscita a fuggire con quella ferita sulla gamba. Ma forse avrebbe potuto nascondersi…

Si sdraiò sul bordo della depressione e lentamente si calò nella fenditura, larga poco più delle sue spalle.

 

«Nell’auto c’era sangue. È ferita. Non può essere andata lontano», esclamò uno dei due militari, scrutando con un piccolo binocolo Zeiss in direzione della vallata. «Io vado verso quei faggi. Voi due verificate dall’altra parte».

Il gruppo si divise in due. Il biondo con la radio e uno dei due uomini armati si arrampicarono su un’altura, mentre l’altro si diresse a un filare di alberi.

«È passata di qui», notò la guida, un uomo dalla folta barba sale e pepe e gli occhietti scavati. «Si vedono le impronte. Lo sentite questo rumore?»

«È un fiume? Un torrente?».

L’uomo annuì, andando verso nord. «Viene da quella parte».

I due si spostarono. Superarono alcune querce e si trovarono davanti un gruppetto di tur, capre selvatiche con delle lunghe corna che brucavano l’erba.

Il militare, aiutandosi con un bastone, avanzò ancora tra gli arbusti e infine si trovò davanti a una depressione del terreno. La terra circostante era smossa, come se ci fosse stato un crollo recente. In fondo alla caldera si vedeva una fenditura nella pietra basaltica e alcune macchie di sangue.

«Qui c’è qualcosa». Sorridendo, indicò l’accesso al torrente sotterraneo. Si avvicinò, puntò il kalashnikov e si sporse per vedere dentro.

E Stella era lì, immersa fino alla vita nell’acqua gelata. Era appoggiata con la schiena ad alcune rocce e sembrava faticasse a opporsi alla corrente.

Appena vide il suo inseguitore, chiuse gli occhi e si limitò ad alzare le mani.