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Gerusalemme. 08:52.

-38:07:29 alla deadline.

 

Il Toro tirò il freno a mano e spalancò la portiera dell’Hummer.

Quello sì che era stato un colpo di fortuna.

Prima di ripartire per la tappa successiva del suo viaggio, quella mattina aveva deciso di cercare di scoprire qualcosa di più sulla ragazzina che l’aveva visto in volto. Non aveva in programma di ucciderla, almeno non subito. Lui non uccideva innocenti e la sola colpa della ragazza era conoscere il suo viso. Sapere chi fosse, tuttavia, era un’assicurazione sul futuro. Avrebbe sempre potuto decidere di toglierla di mezzo in seguito…

La sera precedente il professor Friedman l’aveva chiamata Elisheva e aveva detto di aver dimenticato il suo numero di telefono in ufficio. Si era così intrufolato nella Belgium House e non aveva avuto difficoltà a trovare ciò che cercava: un Post-it sulla scrivania con la scritta Elisabeth e un numero di cellulare che cominciava con il prefisso 054. Elisabeth era la versione occidentalizzata del nome ebraico Elisheva quindi il Toro, soddisfatto, se ne era tornato verso la sua auto.

E a quel punto la divina provvidenza aveva illuminato il suo cammino: prima aveva visto arrivare la ragazza su uno scooter; poco dopo, con sua grande sorpresa, erano entrati nell’università anche Henkel e la giovane agente dei carabinieri.

L’ordine ricevuto quando era a Firenze, quello di “risolvere il problema”, era stampato indelebile nella sua memoria. Non era sicuro che ucciderli fosse giusto, perché non era certo che conoscessero il “segreto”. Le circostanze, però, lo avevano messo ancora davanti a quella possibilità. Aveva quindi aspettato seduto sul sedile della sua auto e una ventina di minuti dopo il loro ingresso i tre erano usciti.

Quando aveva visto scappare la ragazzina si era messo alle sue calcagna, salvo poi ripiegare sul furgone guidato da Henkel. E adesso, finalmente, era in una posizione di grande vantaggio: il veicolo era ribaltato sul ciglio della strada. Fumava ed emetteva un odore di metallo bruciato.

Impugnò la Beretta PX4 Storm e tolse la sicura.

Mentre attraversava individuò il motorino di Elisabeth lungo la discesa. La giovane si era girata verso di lui ma non aveva minimamente rallentato.

“Sei una ragazzina fortunata”, disse fra sé il Toro, mentre si avvicinava al furgone.

Dalla sua posizione non riusciva a vedere se i due occupanti fossero feriti. Cercò di guadagnare una visuale migliore per sbirciare all’interno dell’abitacolo. Girò attorno al veicolo, adagiato su un fianco come un animale ferito.

E in quell’istante un suono nitido di sirene giunse alle sue orecchie.

Si voltò di scatto, in direzione di Givat Ram. Poco distante da lui, lungo Professor Racah Street, la strada che scendeva verso la città, due auto della polizia erano lanciate verso l’incrocio.

“Forse non è proprio destino”, si disse, riflettendo su quanto era già accaduto a Firenze. Si infilò la pistola nei pantaloni e tornò all’auto, ferma a pochi metri di distanza, sotto gli alberi.

Se fosse ripartito subito, scendendo dalla parte opposta, per Derech Elyashar, non l’avrebbero visto.

Così fece. Si sedette sul sedile dell’Hummer, ancora con il motore acceso, ingranò la marcia e partì.

Henkel se l’era cavata ancora…

 

All’interno del furgone FedEx c’era fumo. Gli airbag erano esplosi e il parabrezza si era incrinato.

L’agente dell’SSV scosse il capo, come per scacciare indietro la forte emicrania, e sfiorò il braccio di Viola. Lei era immobile sul sedile del passeggero, addossata al montante del veicolo.

«Sono tutta intera», gli disse, con un sospiro. Ma dalla fronte un rivolo di sangue le scorreva sulla guancia.

«Ce la fai a spostarti?», domandò Andreas. «Hai le gambe libere?»

«Sembra di sì».

«Allora vediamo di muoverci». Scivolò dal sedile nella parte posteriore del furgone. C’erano scatoloni ribaltati ovunque e odore di vino. Qualche bottiglia, contenuta in uno dei pacchi da consegnare, doveva essersi rotta nell’incidente.

Si spostò di qualche centimetro cercando di farsi largo in quel marasma. Provò a raggiungere il portellone posteriore, ma si bloccò di colpo. «Cazzo!».

«Cosa succede?»

«Quel tizio lo conosco!», dichiarò Henkel, stupito. Attraverso il vetro riusciva a vedere l’auto dell’aggressore, parcheggiata poco distante. Un uomo armato stava scendendo. Lo vide togliere la sicura e avvicinarsi. «Siamo nella merda».

Ma in quell’istante il suono delle sirene della polizia spezzò la tensione.

“O forse no…”.

L’agente dell’SSV trattenne il fiato e osservò il Toro immobile al centro della carreggiata. Sembrava stesse decidendo se finirli oppure scappare.

L’attesa durò molto poco: il tizio si voltò, tornò in macchina e ripartì, imboccando la direzione opposta rispetto a quella da cui stava arrivando la polizia.

Dieci secondi più tardi, due Mazda 6 con strisce azzurre e bianche si fermarono di fronte al parabrezza del furgone. Uno degli agenti scese immediatamente e di corsa si avvicinò. Gesticolando, strepitò qualcosa in ebraico.

Henkel rifletté per un istante: erano in Israele con due passaporti falsi. In più, si trovavano a bordo di un camioncino rubato. Si rivolse a Viola e disse: «Lascia parlare me».