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Firenze. 10:15.

-59:44:36 alla deadline.

 

«È solo un graffio», protestò Viola, tra le braccia di Andreas Henkel, mentre attraversavano a piedi il portico del Buontalenti.

Erano arrivati all’ospedale di Santa Maria Nuova, proprio dietro al Duomo, in pochi minuti. Erano passati per via dell’Oriuolo e via Portinari e avevano lasciato la gazzella di fronte all’ingresso del pronto soccorso.

Dopo che l’aggressore gli era sfuggito, l’agente dell’SSV si era reso conto che la ferita del sottotenente era più seria di quanto lei ritenesse. Il sangue aveva preso a sgorgare a fiotti e i pantaloni della divisa erano completamente imbrattati.

«È possibile che il proiettile non sia uscito», la avvertì lui. Spinse la porta a vetri e si ritrovò nell’atrio realizzato nel Seicento da Giulio Parigi.

L’interno della struttura era illuminato da una luce tenue che filtrava dalle arcate a tutto sesto. C’era un lieve brusio, rotto da suoni lontani di clacson e sirene. Davanti a lui, nei pressi dell’ingresso delle ambulanze, alcuni paramedici spingevano una lettiga. Sul lato destro erano sistemate invece una decina di poltroncine, tutte occupate da pazienti in attesa del loro turno.

Dietro un bancone in teak, che stonava con l’ambiente rinascimentale dell’atrio, stava seduta un’infermiera dall’aria assonnata. Aveva un camice giallo, un vistoso paio di occhiali e, vedendoli arrivare, si alzò svogliatamente in piedi.

«Presto!», ingiunse Henkel con enfasi, tenendo in braccio Viola. «Ha una ferita d’arma da fuoco».

In pochi istanti alcuni addetti, che erano in piedi dietro il bancone di accettazione, gli si fecero incontro.

«Sistemiamola su quella branda», ordinò il primo. La afferrò per le gambe e aiutò l’agente dell’SSV a spostarla su una barella nei pressi della porta.

«Sto bene», ribadì Viola, stizzita. «È solo un graffio. Dobbiamo tornare al Battistero!».

Mentre lei parlava, un medico si avvicinò con una siringa e un paio di forbici. Tagliò il pantalone, seguendo la banda rossa della divisa, e raggiunse la ferita. «Ha fatto bene a portarla», si complimentò, rivolto a Henkel. «Ha bisogno di alcuni punti di sutura. Ci vorranno pochi minuti».

In quell’istante, il cellulare dell’agente dell’SSV prese a vibrare.

Henkel lo estrasse e adocchiò il display: +31 20… Era un numero olandese. Fissò Viola, che veniva portata oltre una tenda, e si allontanò per rispondere.

«Sì?», balbettò, incerto.

«Tic-tac. Tic-tac». Era una voce maschile. Roca. Poteva essere quella di Herman Van Buuren?

«Chi parla?»

«Caro Andreas, come procede la ricerca?».

Era lui. Henkel si schiarì la voce e, aggressivo, disse: «Voglio parlare con Stella».

Dall’altro capo del telefono si udì una scarica elettrostatica, ma poi la voce dello scienziato tornò forte e chiara. «Stella sta bene, ma ha meno di sessanta ore di vita, come lei ben sa. Le consiglio di non perdere tempo in chiacchiere».

Henkel inspirò l’aria gelida dell’atrio e sospirò.

«Le ho fatto una domanda: come procede la ricerca?».

Per un secondo l’agente si concentrò sul televisore a schermo piatto, posizionato sopra l’accettazione. Scorrevano le immagini della web-TV della «Nazione». Le due vittime dell’attentato alla casa d’aste erano state identificate: una donna inglese e un faccendiere russo. «La Bibbia non è in Vaticano», rispose poi, digrignando i denti in un impeto di rabbia a stento represso.

«E quindi è andato a Firenze…», continuò l’olandese. «Vorrei sapere a fare cosa. Ci tengo che il nostro contratto venga rispettato. Per il bene di entrambi».

Le parole di Van Buuren confermarono i sospetti di Henkel: l’orologio doveva avere un qualche sistema di localizzazione, quindi i rapitori di Stella sapevano che non era più a Roma. Ma non fu quella scoperta a turbarlo di più.

Alla TV stavano scorrendo delle immagini concitate riprese da un cellulare. Si vedeva un furgone Mercedes-Benz lanciato a tutta velocità. Sovrapposta, a caratteri cubitali, c’era la scritta IMMAGINI ESCLUSIVE. Il video appariva sfuocato, ma sullo sfondo si notava anche una gazzella dei carabinieri. Era l’agguato che avevano subito pochi minuti prima, probabilmente ripreso da qualche curioso e pubblicato su YouTube.

«Sì», disse Henkel al telefono, gli occhi ancora incollati alla TV. «Sono a Firenze, perché sto seguendo una pista. Manterrò i patti. Avrete ciò che volete».

«Sono felice di sentirlo». L’uomo fece una pausa teatrale. «Volevo essere sicuro che avesse ben chiara la situazione».

«Voglio parlare con Stella!», riprovò Henkel.

«Faccia quello che deve e potrà parlarci…». Mentre Van Buuren pronunciava quelle parole, alla televisione comparve un primo piano di Viola. Le immagini erano sempre molto confuse e mosse, tuttavia si distingueva abbastanza chiaramente che impugnava una Beretta. «Ma non adesso… Ci risentiremo presto!».

Prima che Henkel potesse replicare, la comunicazione venne interrotta.

Rimase per alcuni secondi immobile, come paralizzato. Una ridda di emozioni lo assalì: da una parte c’era Stella e dall’altra ciò che vedeva sullo schermo. Adesso alla televisione scorreva una scena al rallentatore: si vedeva Viola fare fuoco e, dopo un movimento brusco della telecamera, un carabiniere accasciarsi a terra.

«Può alzare il volume per favore?», chiese Andreas, riponendo il cellulare nel giubbotto e avvicinandosi al bancone. La donna annuì.

«La vittima è il capitano Fabio Aruta», stava dicendo la voce fuori campo della giornalista. «Quarantasette anni, sposato con due figli».

Adesso, sovrapposta al video si vedeva una fotografia non troppo recente di Viola. Indossava uniforme, berretto e sorrideva.

«Gli inquirenti non si sbilanciano, ma da queste immagini esclusive pare emergere chiaramente la dinamica dell’omicidio».

L’immagine ripresa dal cellulare tornò a tutto schermo. Si vedeva il ralenti dello sparo proveniente dall’arma della giovane e poi Aruta cadere tra le braccia di Henkel.

«Non ci sono conferme, ma il sottotenente Viola Puccini risulta attualmente irreperibile. Mancherebbe all’appello anche un uomo di nome Andreas Henkel, il cui ruolo nell’agguato sarebbe al vaglio degli inquirenti».

Nonostante la speaker apparisse convinta della dinamica, a dispetto di ogni buona regola di giornalismo, le immagini erano tutt’altro che chiare. Certo, si vedeva Viola sparare in direzione di Aruta, ma nell’immagine non c’era l’aggressore. E lui sapeva benissimo che, contemporaneamente, dal furgone era piovuta una pioggia di proiettili.

«Eccomi. Mi hanno rattoppato un po’, ma sto benone». La voce di Viola, alle sue spalle, lo colse di sorpresa. Gli si era materializzata accanto e stava impalata con un timido sorriso sul viso. «Potevo morire dissanguata. Pare che le sia debitrice… o a questo punto ti sia debitrice. Mi hai salvato la vita, quindi dobbiamo cominciare a darci del tu!».

Henkel non parve apprezzare la battuta. Si voltò verso di lei, lo sguardo lugubre. «Guarda!», le disse, indicando la TV.

Viola, vedendo la sua immagine sullo schermo, rimase di sasso. Non capì subito la gravità della situazione ma la consapevolezza di quanto stava accadendo arrivò un secondo dopo: tre macchine dei carabinieri piombarono a sirene spiegate nella piazza antistante al portico del Buontalenti.

Una decina di agenti smontò velocemente, le armi in pugno.

 

Pochi istanti più tardi, il sanitario che aveva medicato la ragazza sbucò dal corridoio. Teneva lo sguardo fisso su un fascicolo e si avvicinò al bancone dell’accoglienza. «Ci sono da compilare questi documenti», fece notare, rivolto alla collega dietro il bancone.

La donna lo fissò, stupita.

«Dov’è il sottotenente a cui hanno sparato?», si informò lui, togliendosi gli occhiali.

«Era qui un attimo fa…».