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Città del Vaticano, 23 ottobre. 03:20.
-66:39:35 alla deadline.
Era buio pesto e davanti al cancello di porta Sant’Anna sostavano due guardie svizzere infreddolite. Dal lato della chiesa parrocchiale, lungo le mura leonine, il semaforo era rosso.
«Buonasera… o forse dovrei dire buongiorno!». Andreas Henkel si sforzò di sorridere e mostrò il tesserino con lo stemma del Vaticano.
Mentre attendeva il controllo, verificò il conto alla rovescia sull’orologio che aveva al polso: mancavano meno di sessantasette ore alla deadline. Per quanto fosse stato veloce, il viaggio da Lugano a Roma aveva sottratto tempo prezioso a Stella.
Il giovane fece due passi e si avvicinò al veicolo. Esaminò i documenti – che qualificavano l’agente del Servizio Segreto Vaticano come ufficiale della Gendarmeria – e si mordicchiò le labbra, dubbioso.
Mostrare quel badge era la normale prassi, soprattutto perché l’SSV ufficialmente non esisteva. Era un corpo voluto negli anni Cinquanta da papa Pio XII, e negli oltre settant’anni della sua storia era comparso molto di rado sui documenti del Vaticano. Henkel era uno degli agenti con più esperienza. Negli anni era diventato uno degli uomini di fiducia del Santo Padre, il quale gli aveva affidato numerose missioni riservate. Proprio a lui era toccato per esempio, diversi mesi prima, recuperare la Sacra Sindone, trafugata in seguito a un attentato organizzato da un gruppo di fanatici religiosi.
E adesso si trovava al centro di quella che probabilmente era la missione più complicata della sua vita, visto che coinvolgeva i suoi affetti.
«Prego, colonnello», bofonchiò alla fine la guardia svizzera, restituendogli il tesserino. Il semaforo divenne verde. «Buona permanenza».
La Kia Sportage dell’agente procedette lentamente lungo via Sant’Anna, si lasciò il torrione Niccolò V alla sinistra, e proseguì fino al cortile del Belvedere.
Si fermò nei pressi del portone degli Archivi Segreti Vaticani. Scese dalla macchina e si ritrovò avvolto da un silenzio irreale. Il parcheggio, che di giorno era stracolmo delle auto degli oltre cinquemila dipendenti della Santa Sede, era quasi completamente deserto.
Henkel si spostò a grandi passi sul lato corto della piazza ed estrasse il suo badge. Come sapeva Van Buuren, era provvisto di un chip con abilitazione a livello 1. Con quello avrebbe aperto la maggior parte delle serrature del palazzo.
Lo introdusse nel lettore e subito dopo il led divenne verde.
Quando, la mattina dopo, gli addetti avrebbero controllato i log del sistema di sicurezza integrato, avrebbero scoperto che era stato lui ad aprire la porta a quell’ora di notte. Ma purtroppo non c’erano alternative… e soprattutto non aveva il tempo per elaborare un piano migliore.
Si infilò in un androne dai soffitti alti e le pareti affrescate e si richiuse il battente alle spalle. Procedette silenziosamente sul marmo del corridoio semibuio. Immaginava che entro pochi secondi sarebbe arrivata una guardia di ronda. Due se era sfortunato.
Si sistemò in un angolo e attese.
Non si sbagliava: quasi subito udì lo scalpiccio di passi veloci provenienti dall’ingresso principale. Qualcuno doveva già essersi accorto che una porta era stata aperta.
L’uomo lo superò senza vederlo, ma Henkel non gli diede modo di girarsi. Gli piombò alle spalle e con l’avambraccio lo immobilizzò.
La guardia provò a opporre resistenza, sgomitando e cercando di divincolarsi. Ma non ci riuscì, l’agente dell’SSV era notevolmente più forte. Strinse la presa sul collo e lentamente sentì le resistenze cedere.
In meno di trenta secondi Henkel chiuse la guardia in uno degli uffici che si affacciavano sul corridoio e si diresse verso la sala Leone XIII. Da lì si accedeva all’archivio, alle sale consultazioni e ai bunker. Sapeva che c’erano anche alcuni terminali con accesso all’intera rete informatica. Riuscire a introdursi nel sistema era la sua unica speranza di trovare velocemente ciò che cercava. Sempre ammesso che Van Buuren non si fosse sbagliato…
Raggiunta la porta di vetro che delimitava il corridoio C, fece scorrere ancora una volta il suo badge nella serratura ed entrò. Si trovò in un locale climatizzato, ampio e con alcune nicchie in cui erano sistemati documenti rari protetti da doppi vetri.
Le poche luci di sicurezza illuminavano una fila di scrivanie tutte identiche, dotate di PC con monitor piatto. Dalla parte opposta della stanza c’erano grandi scaffali colmi di fascicoli rilegati. Sul fondo una grata che dava l’accesso alle gallerie: ottanta chilometri di scaffalature che si dipanavano sotto il Palazzo Apostolico.
Ma lui non aveva intenzione di avventurarsi in quel labirinto, almeno non subito. Seguì il lieve ronzio della ventola di un computer e si sedette in una delle prime postazioni. Mosse il mouse ed ebbe conferma che il sistema era acceso. Si trovò di fronte a una schermata gialla, con il logo della Città del Vaticano in alto e lo spazio per un nome utente e una password.
Non aveva scelta: ancora una volta fu costretto a inserire le sue credenziali.
Gli Archivi Segreti erano gestiti per mezzo di una rete informatica dedicata. Con quella si potevano individuare i documenti collocati nei corridoi con una precisione millimetrica. Il sistema, che aveva richiesto un investimento di diversi milioni tra infrastruttura e catalogazione, era in funzione da alcuni anni. Fortunatamente, lui aveva già avuto modo di utilizzarlo in passato. Le ricerche erano relativamente semplici: si trattava di inserire il testo nell’apposito campo e un algoritmo molto sofisticato faceva il resto.
Contemplò il catalogo dell’asta e poi digitò il titolo che campeggiava sulla copertina: “Manoscritti degli Illuminati”.
Non ne aveva mai sentito parlare, ma l’olandese era stato molto chiaro. Oltretutto quel termine evocava in lui ricordi angoscianti: tre anni prima, una congregazione che si ispirava agli Illuminati del Cinquecento, i cosiddetti Illuminati per voluntatem Dei, era stata l’artefice del furto della Sacra Sindone. Quel nome richiamava pagine oscure della storia del Vaticano: nel XV secolo, infatti, un gruppo di illustri scienziati che seguivano i “lumi” della ragione aveva fondato una vera e propria setta. Il suo scopo era distruggere la Chiesa di Roma, colpevole di perseguitare chi professava apertamente i princìpi della scienza. Molti di questi studiosi, artisti e filosofi non avrebbero disdegnato l’uso della forza. Molti, ma non tutti: Galileo Galilei, per esempio, aveva immaginato che scienza e fede – che descriveva come due facce della stessa medaglia – potessero convivere e imparare l’una dall’altra. Il papato però non era stato della medesima idea e gli appartenenti alla setta erano stati dichiarati eretici e condannati a morte.
Mentre rimuginava su quei ricordi, il sistema restituì un laconico: “21.000 documenti trovati”.
Troppi, e a quanto pareva nessuno acquisito di recente. Provò, leggendo il catalogo, con il titolo di uno di quei fantomatici manoscritti degli Illuminati: Le guerre di Yahweh. Premette invio e attese di nuovo.
Ancora troppi risultati e tutti troppo datati.
Non si diede per vinto e senza indugiare digitò: La profezia di Achia, un altro dei titoli messi all’asta. Ancora niente.
L’agente dell’SSV si lasciò cadere sullo schienale, lo sguardo perso nel vuoto. Non fece in tempo a riflettere su cos’altro cercare che uno scalpiccio di passi in corridoio attirò la sua attenzione.
Spense il monitor e trattenne il respiro, immobile nella penombra.
Oltre le veneziane della vetrata comparve una lama di luce. Era un’altra ronda, che sbirciò all’interno della sala per alcuni secondi e poi proseguì.
Henkel la vide allontanarsi, ma non ebbe il tempo di prendere fiato che l’uomo sembrò cambiare idea. Tornò indietro e si avvicinò alla porta. Fece scattare la serratura, ma nel medesimo istante la “sveglia” degli Alpini, proveniente dal suo cellulare, lo distrasse.
«Ciao», ridacchiò la guardia, con un piede in corridoio e uno nella stanza. Se avesse aperto la porta avrebbe visto Henkel, fermo come una statua. «Tutto bene? Tra poco smonto».
Trascorsero alcuni interminabili secondi senza che accadesse nulla. Poi l’uomo rise sguaiatamente, fece un passo indietro e si richiuse la porta alle spalle. Scomparì nel corridoio molto più velocemente di quando era arrivato.
L’agente dell’SSV scosse il capo per il colpo di fortuna e riaccese il monitor. Non perse tempo: digitò un’altra stringa di testo e poi un’altra ancora. Nessuna dette i risultati sperati. Centinaia di documenti ma nessuno con le caratteristiche che cercava.
Che fare?
Per un istante parve dubbioso. Ammesso che i papiri fossero realmente lì, era come cercare un ago in un pagliaio. Era evidente che con il suo approccio non avrebbe ottenuto nulla. C’era tuttavia un’altra possibilità…
Chiuse il database e digitò l’indirizzo della pagina d’accesso alla intranet. Ogni documento, lettera o merce che entrava in Vaticano veniva protocollato ancora prima di essere assegnato e poi archiviato. Se ciò che lui cercava era effettivamente arrivato, nel protocollo elettronico doveva essercene traccia.
Richiamò la maschera “in entrata” e riprovò a digitare i testi già inseriti. Ancora nessun risultato.
Possibile che i rotoli fossero entrati clandestinamente? Non poteva saperlo. Provò ad ampliare la finestra temporale e senza crederci troppo inserì un numero di tre cifre: 302.
Si passò la mano sul mento e premette invio.
“Bingo”.
Sul video comparve un documento. Era un’email di pochi giorni prima, indirizzata alla prefettura degli Archivi Segreti e in copia alla Segreteria di Stato. Aprì il file e si trovò davanti a una pagina scritta in Arial ma con alcune delle righe censurate.
Per qualche secondo si limitò a fissare lo schermo. Sembrava che l’email fosse stata stampata e che qualcuno avesse cancellato delle parti con un pennarello nero. Successivamente dovevano averla scannerizzata nuovamente per inserirla nel protocollo.
Henkel stampò la pagina e poi la guardò ancora una volta. Per la maggior parte era incomprensibile, tuttavia vi erano alcuni elementi che avrebbero potuto rivelarsi importanti: il nome del mittente, tale Lamberto Zonca, i destinatari dell’email e il riferimento al lotto 302.
Si alzò di scatto e si diresse alla scala. La sua tappa successiva era obbligata. C’erano poche possibilità che funzionasse, ma poteva valere la pena provarci.