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Roma, fine di maggio dell’anno 1217.

 

«Tutti quelli che sanno devono morire». Mentre attraversava la sala del Concilio, papa Onorio III continuava a ripetersi quella frase.

L’unico rumore che si udiva nell’immenso triclinio era lo scalpiccio dei passi sul marmo e il fruscio delle sue vesti. Dietro di lui camminava uno stuolo di religiosi che faticava a stargli dietro.

Onorio III, nato con il nome di Cencio Savelli, era salito al soglio pontificio un anno prima. Riteneva di essere un uomo mite e mai avrebbe immaginato di trovarsi di fronte a un problema di quelle dimensioni.

«Tutti quelli che sanno devono morire e quei rotoli devono essere seppelliti», aveva ordinato a un suo uomo fidato, pochi minuti prima.

Non lo avrebbe mai creduto possibile, ma quelle parole erano sgorgate dalla sua bocca con naturalezza. Erano state necessarie. Eppure non si sentiva a suo agio. Quel palazzo, il Patriarchium, con tutto il suo sfarzo, i mosaici, i soffitti in legno, lo metteva a disagio. A tutta quella ricchezza preferiva la tranquillità e il verde dei cipressi sull’Aventino. Quando poteva ci tornava, nella sua Santa Sabina, ma non quel giorno. Purtroppo…

Giunto nel centro della sala, nei pressi di una fontana con una conca di porfido, si fermò. Per qualche secondo lasciò vagare lo sguardo sulle nicchie affrescate che delimitavano le pareti, poi chiuse gli occhi.

«Non possederesti tu ciò che Chemos, tuo dio, ti avrebbe dato a possedere?». Le parole di Giudici 11, lette su quei maledetti papiri continuavano a martellargli nelle tempie. «Così anche noi possederemo il paese di tutti quelli che il Signore Iddio nostro avrà cacciati d’innanzi a noi».

Quello era uno dei passaggi che messer Poggi, con il suo fare viscido, gli aveva letto e riletto. Diceva di averlo confrontato anche con la Septuaginta, la Bibbia greca, e aveva evidenziato le differenze tra i due testi.

In quel versetto, il 24, a suo dire c’era la prova che Chemos non era un idolo di pietra, come la tradizione voleva far credere. La parola greca usata infatti era diamerzio, che indicava proprio il concetto di spartizione, qualcosa di reale, distribuito tra tanti soggetti. Da quei passaggi pareva evidente che altri dèi, oltre al Dio di Israele, avessero ricevuto territori differenti e popoli diversi da governare.

«Le terre che il tuo Elohìm Chemos ti ha concesso tu le tieni, così come noi, popolo di Israele, ci teniamo quelle dateci dal nostro Elohìm». Quella era la traduzione che Poggi considerava corretta. Diceva fosse l’unica ragionevole, la sola in grado di spiegare razionalmente la situazione molto concreta descritta da quel passaggio. Aveva però un grande difetto: metteva sullo stesso piano Dio con gli altri dèi. Metteva in discussione tutto, la pietra sulla quale era stata costruita la Chiesa di Roma: il monoteismo.

E poi c’era quella parola: Elohìm. Ripetuta fino alla noia. Poggi gli aveva segnalato decine di altri passaggi in cui era ripetuta e tradotta con “dèi”. Aveva letto interi libri, dal Deuteronomio alle Guerre di Yahweh per arrivare fino a testi di cui conosceva solo il titolo. E in tutti compariva quella parola: sempre la stessa, al plurale.

C’era certamente un errore. Da qualche parte doveva esserci un errore. Quel Poggi, che diceva di essere credente e di parteggiare per la famiglia dei Geremèi, nascondeva qualcosa. Si domandò a cosa mirasse esattamente. Era possibile che con la sua falsa Bibbia e le sue false interpretazioni riuscisse a convincere qualcuno? La Chiesa avrebbe dovuto combattere contro altri eretici, oltre ai Valdesi e ai Catari?

Il papa fissò i religiosi che gli stavano accanto. Lo vedevano agitato e nessuno osava chiedergli cosa avesse. Poi si voltò e con il mento accennò al camerlengo. «Ho bisogno di incontrare Guillaume de Chartres».

Il prelato, che con lo sguardo basso fissava la punta delle sue calzature, annuì sommessamente. «Naturalmente, Santità». Conosceva bene de Chartres. Era il figlio del conte di Bar-sur-Seine e ormai da otto anni era Gran Maestro dell’Ordine dei Templari. «Lo manderemo a chiamare».

Onorio III bisbigliò qualcosa in latino che il camerlengo non riuscì a udire e si lisciò la folta barba bianca. Si diresse verso la nicchia ispirata al triclinio dei XIX letti del palazzo imperiale di Costantinopoli e scomparve dietro un imponente portone. «Tutti quelli che sanno devono morire».

 

Due giorni dopo, mentre messer Poggi di Monte Renzolo affrontava con la sua scorta un’irta salita sugli Appennini, fu bloccato da un temporale.

Aveva affidato i rotoli di papiro al papa in persona, affinché in Laterano si potessero meglio esaminare. Si sentiva sollevato, certo di aver fatto la cosa giusta.

Si riparò in un casale poco lontano dalla via Flaminia, protetto da un bosco di castagni. Non sapeva che quella sarebbe stata la sua ultima notte. Poco prima dell’alba, la piccola delegazione bolognese fu infatti sorpresa nel sonno da un gruppo di briganti armati di pugnale. Inspiegabilmente, quei malviventi non rubarono nulla e si limitarono a tagliare la gola al magister e a tutti i suoi armigeri.

L’anziano studioso portò le mani al collo, dal quale sgorgavano fiotti di sangue. Gli mancava l’aria e sentiva le tempie pulsare. Pochi istanti prima di perdere i sensi per sempre gli apparve l’immagine di fra’ Ranuccio, il domenicano a cui aveva affidato la lettera di Bonifacio degli Aleramici.