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Bologna, inizio di maggio dell’anno 1217.
Elohìm.
Quel termine ebraico lo aveva perseguitato negli ultimi dieci anni. Aveva provato a interpretarlo, tradurlo, adattarlo ad altri significati ma per quante energie avesse impiegato, non c’era mai riuscito.
Poggi di Monte Renzolo era un uomo stimato, dotto e che per la metà della sua vita si era dedicato ai libri e alle Sacre Scritture. Oltre al latino, conosceva sia il greco che l’ebraico. Era un fervente credente e parteggiava per la famiglia guelfa dei Geremèi, che proprio in quei giorni si era unita alla quinta crociata voluta dal nuovo papa.
Proprio per quella ragione aveva
custodito fino ad allora, in segreto e senza farne parola con
nessuno, i rotoli che gli aveva inviato più di dieci anni prima
Bonifacio degli Aleramici. Gli stessi rotoli che contenevano quella
parola: , Elohìm.
“Non ne parlerò mai”, si era detto e ripetuto costantemente, nel buio del suo studio. E ne aveva più di una ragione: quei quattordici papiri rinvenuti in Terra Santa nascondevano un messaggio dirompente. Oltre alla narrazione di racconti biblici che non aveva mai sentito, c’erano infatti anche diverse versioni di alcuni libri della Bibbia molto differenti da quelle canoniche. Le difformità erano acuite dal fatto che oltre all’ebraico non vocalizzato riportato sui papiri, ogni frase era accompagnata da una traduzione in greco.
La lettura così era facilitata esattamente come la comprensione del significato. E quel termine, Elohìm, che nella Bibbia tradizionale era interpretato come sinonimo di “Signore” o “Eterno” o “Altissimo”, nella traduzione greca suonava in modo molto diverso.
Dal Deuteronomio trascritto sui rotoli emergeva un significato terribile per un credente convinto come lui. La parte in cui Dio divideva le nazioni e stabiliva i confini dei popoli secondo il numero dei figli d’Israele, coincideva infatti con un famoso testo di Platone.
Nel Crizia, il filosofo greco narrava che i theoi ebbero i territori che desideravano a seguito di una assegnazione degli stessi. La storia sembrava del tutto simile a quella raccontata in Deuteronomio 32: si ritrovava perfino il concetto di Dio, il quale dopo aver distribuito le nazioni, governa il suo popolo come un pastore con il gregge.
Ma c’era una differenza sostanziale. Mentre nella Bibbia in ebraico si parlava di Elohìm, di Dio, nella versione greca quella parola era tradotta proprio con l’identico termine usato da Platone: theoi.
Dèi, non Dio.
Plurale.
Purtroppo, quel significato era fin troppo chiaro. Nei rotoli ricevuti da Bonifacio degli Aleramici, dove si parlava di Dio si faceva riferimento non a un Dio unico, ma a una pluralità di dèi. Se quei testi dicevano il vero, il presupposto sul quale si fondava l’intera religione cattolica, il monoteismo, cadeva inesorabilmente.
Quel segreto poteva rivelarsi troppo pericoloso anche per lui: papa Innocenzo III, morto un anno prima, aveva infatti condotto una durissima battaglia contro gli eretici catari e valdesi. Le due dottrine contestavano, ognuna a suo modo, la Chiesa di Roma. Ma ciò che professavano era insignificante, se paragonato a ciò che messer Poggi riteneva di avere scoperto.
Così era trascorso un lungo decennio in cui l’anziano magister dello Studium aveva continuato a esaminare i rotoli in segreto. Aveva cercato elementi utili a confutare la sua teoria e quei testi erano diventati un’ossessione. Più ne comprendeva il significato, però, più si rendeva conto che il suo proposito iniziale di tenere solo per sé quella scoperta non era più accettabile. A Roma dovevano sapere…
E la sua occasione per fare la cosa giusta – quella che qualunque cristiano avrebbe dovuto fare con coraggio – alla fine era arrivata.
Nel luglio precedente a Innocenzo III era succeduto papa Onorio III, teologo illustre e più disponibile al dialogo. Dopo lunghe riflessioni Poggi si era così convinto che fosse lui l’uomo giusto a cui svelare la sua verità.
Quella mattina si vestì velocemente, impaziente di mettersi in viaggio. Indossò la tunica comoda color amaranto, la sopravveste e delle calze grigie. Afferrò la bisaccia, si sciacquò il viso rugoso e subito dopo attraversò il buio corridoio, diretto al piano sottostante. La campana della chiesa di San Procolo stava suonando le laudi.
Giunto nel cortile, constatò con gioia che era tutto pronto: il carro era stato preparato come aveva richiesto, i rotoli erano stati caricati e gli armigeri erano già in sella alle loro cavalcature. Avevano imponenti daghe alla cintura e mostravano polpacci e bicipiti muscolosi.
«Fra’ Ranuccio è già arrivato?», indagò messer Poggi, inspirando l’aria pervasa degli odori terrigeni dei mansi limitrofi.
«Eccomi, magister», sussurrò il domenicano, avvolto nel suo saio ruvido, mentre avanzava dalla zona d’ombra. «Al vostro servizio».
Poggi lo guardò con affetto: era magro come uno stecco, pallido, con gli occhi ravvicinati e le labbra contratte. Gli andò incontro e l’abbracciò. «Grazie per essere venuto».
I due si spostarono di qualche passo e poi l’anziano studioso estrasse una lettera dalla bisaccia di cuoio. «Custoditela per me, ve la affido. Roma è una città pericolosa. Se mi dovesse accadere qualcosa potreste udire voci non vere sul mio conto. Ebbene: non voglio che oltre al mio onore ci vada di mezzo anche quello di un caro amico scomparso».
Il frate annuì cupo e prese il rotolo, sul quale si intravedeva ancora il sigillo degli Aleramici. «Ve la restituirò al vostro ritorno».