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Firenze. 13:05.
In tarda mattinata il cielo su Firenze si era rannuvolato e aveva cominciato a piovere.
L’agente speciale Graham Dawe aveva lasciato l’auto con la quale era arrivato in tutta fretta da Venezia nei pressi del giardino di Boboli. Mentre attraversava la strada si era coperto con l’impermeabile. Appena entrato a palazzo Pitti, la sede del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale, si era presentato e un carabiniere l’aveva fatto accomodare in una sala d’aspetto.
Ci era rimasto solo pochi minuti, sufficienti però per ripensare al motivo per il quale si trovava lì e per salutare una sua vecchia conoscenza.
«Anche tu qui?», aveva esclamato con stupore, a indirizzo del comandante Gutierrez, suo ex collega alla CIA. Era soprannominato Hannibal Smith e anche quel giorno teneva il suo immancabile cubano tra le labbra. «Come te la passi?»
«Non bene quanto te, amico», gli aveva risposto laconico il militare, il viso tirato e la mimetica stropicciata. Poi gli aveva stretto la mano energicamente. Dawe non aveva avuto il tempo di replicare, perché subito dopo un agente in divisa era venuto a prenderlo per scortarlo dal comandante.
E adesso Graham Dawe si trovava in un austero ufficio del secondo piano, dal quale si vedeva la cupola del Duomo. Accanto alla finestra c’erano la bandiera italiana e quella dell’Unione europea e di fronte a lui era appeso il ritratto del presidente della Repubblica. Il dottor Aurelio Randazzo stava in piedi, al di là di una imponente scrivania di mogano.
«Piacere di conoscerla», cominciò il comandante, tendendo la mano. Era al vertice del Nucleo da diversi anni e considerava Viola Puccini come una figlia. Il padre della ragazza era stato un suo grande amico e, dopo la sua tragica scomparsa, era stato lui a insistere affinché Viola entrasse nell’Arma. E adesso l’accusavano di aver ucciso un suo diretto superiore.
«Colonnello, devo discutere con lei di una questione della massima importanza», esordì Dawe, con accento della costa Ovest. Non era la prima volta che aveva a che fare con gli ufficiali dei carabinieri. In passato, quando era di stanza nella base americana di Vicenza, era stato spesso in contatto con i militari italiani. A quel tempo, tuttavia, collaborava per arginare movimenti civici che si opponevano all’ampliamento di Camp Ederle… non si occupava di incastrare i suoi colleghi dell’SSV. «Arrivo adesso da Venezia e non volevo perdere neppure un istante».
«Ho visto le immagini della sparatoria e ho letto il mandato di cattura spiccato dall’Interpol a tempo di record». Randazzo andò dritto al punto. Poi indicò la sedia di fronte alla scrivania e fece cenno all’agente di accomodarsi. «Mi perdoni, ma non mi pare che ci siano tutte queste certezze sul fatto che il sottotenente sia in qualche modo responsabile della morte di Aruta».
«Purtroppo la dottoressa Puccini si è data alla fuga con un pericoloso criminale…».
«Tale Andreas Henkel». Il colonnello lesse con enfasi il nome su un fascicolo, a cui era allegata con una graffetta anche una fotografia. «E secondo voi questo equivale a renderla complice, o colpevole di qualcosa?».
Dawe sfoderò un sorriso di circostanza. Era stato lui, dopo la telefonata del Toro, ad attivare le sue fonti all’Interpol e a fare la soffiata a «La Nazione». Era contento che Henkel fosse riuscito a sfuggire all’agguato e, in effetti, ci aveva anche sperato. Il suo piano era tenerlo lontano dai papiri, sperando che non si facesse del male. Per adesso, con la complicità di E.C. c’era riuscito, ma era necessario fare un passo ulteriore.
«In effetti non è detto che sia complice di qualcosa…», assentì, conoscendo il rapporto tra il colonnello e la Puccini.
«Il sottotenente potrebbe essere sua prigioniera, per esempio», ammonì Randazzo, passandosi l’indice sui baffi bianchi.
«È possibile», confermò l’americano, con un’inaspettata punta d’incertezza nella voce. Ma l’altro non la colse. «Quello che a noi della Gendarmeria e all’Interpol preme di più, per adesso, è fermarli. Henkel questa notte si è macchiato di diversi reati nella Città del Vaticano e se, come lei crede, il sottotenente è innocente, potrebbe addirittura trovarsi in pericolo».
Randazzo fissò l’ex agente della CIA negli occhi color ghiaccio. Sembrava una specie di Big Jim, immobile e con i capelli scolpiti che non si erano mossi di un micron da quando si era seduto lì davanti. «A che punto è la ricerca?», chiese più morbido, intuendo l’apertura lasciata da Dawe.
«Hanno prenotato due posti su un Frecciarossa diretto a Torino. Dovrebbe arrivare a Porta Nuova alle tredici e quaranta».
«E io in cosa posso esserle utile?», domandò, perplesso, il colonnello.
«Alla stazione troveranno i nostri uomini, ma se conosco Henkel dubito che siano a bordo. Se non dovessimo trovarli a Torino, sarà necessario inoltrare un avviso agli aeroporti e alle stazioni».
Randazzo si voltò verso la finestra. Gli occorsero alcuni secondi prima di rispondere. «Servirà qualche ora, signor Dawe», concluse.