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In volo sopra le isole Cicladi. Ora locale 17:45.

-29:14:43 alla deadline.

 

Il vecchio Cessna Skylane fendeva l’oscurità sobbalzando nell’aria con l’agilità di un gatto zoppo. Il mare, pochi metri sotto la carlinga del velivolo, era una tavola piatta e nera. All’orizzonte, oltre le nuvole, gli ultimi bagliori di un sole rossastro stavano sprofondando nel buio.

All’interno della minuscola cabina, i quattro occupanti erano in silenzio, cullati dai rollii continui dell’aereo. Walid impugnava la cloche con apparente tranquillità, anche se spesso dava l’impressione di premere pulsanti a caso sulla plancia. Accanto a lui, Viola teneva gli occhi puntati sulle luci che baluginavano a dritta, mentre dietro, Henkel dormiva. La giovane Elisabeth stava al suo fianco, con il computer portatile sulle ginocchia e un cavo dati che scompariva lungo il sedile.

«Adesso me lo puoi dire…». Viola si sistemò il borsone tra le gambe e si voltò verso il pilota. «Israele non ha il controllo militare sullo spazio aereo della striscia di Gaza?».

Walid, che si esprimeva in un inglese scolastico, un po’ ingessato ma comprensibile, annuì impercettibilmente. «Gli israeliani mantengono un blocco marittimo e aereo per sei miglia nautiche dalla costa».

Lei parve stupita. «E allora?… come abbiamo fatto a eludere il blocco? Siamo decollati praticamente indisturbati… da quella specie di strada polverosa».

«L’aeroporto di Gaza non esiste più da anni. Ci dobbiamo arrangiare con quello che c’è», sorrise il giovane, con una punta d’orgoglio nel viso. «Come credi che arrivino i beni di prima necessità a Gaza, Rafah o Jabalya? Qualche amico l’abbiamo anche noi».

«I beni di prima necessità o le armi?».

A quella domanda, Walid non rispose e prese ad armeggiare distrattamente con i comandi del monomotore. In quel momento sobbalzavano come se stessero incontrando dei dossi stradali.

Viola non aprì più bocca per un po’, lasciando che il rombo persistente del velivolo riempisse il silenzio. Era evidente che un viaggio di quel tipo non era una novità per il giovane Walid. Chissà, forse era proprio quello il suo lavoro: rifornire la striscia di Gaza di quei beni che il governo di Israele non permetteva passassero dalle dogane. Il tutto, probabilmente, con la complicità di qualche funzionario ben oliato…

«Non ci dobbiamo fermare per fare rifornimento?», domandò poi il sottotenente, che vedeva sotto di lei le luci di un isolotto con le coste frastagliate come la lama di un coltello.

«No. Abbiamo autonomia per quasi duemila chilometri. E nel piano di carico taniche per farne altrettanti… Eliush mi ha assicurato che me le avreste pagate!».

«Certo!», confermò lei, più stupita che convinta.

«Ehi, le coordinate sono arrivate». Elisabeth si intromise dal divanetto posteriore. La luce bianca del monitor le illuminava il viso sorridente. «Se il greco voleva un luogo all’aperto, ha proprio scelto bene!». Annotò alcuni numeri e una parola su un foglietto e lo porse al pilota. Per un istante, quando lui allungò la mano verso di lei, le loro dita si sfiorarono.

E in quel momento il suo cuore cominciò a battere all’impazzata, come non le accadeva da molto tempo. Per quel ragazzo aveva fatto di tutto e, se ci rifletteva bene, anche le decisioni delle ultime ore erano state prese in funzione di Walid. L’uomo chiamato il Toro, la morte di Friedman, lo stesso Kevod e Viola erano state tutte coincidenze fortunate. O forse soltanto scuse arrivate al momento giusto… Scuse per tornare dal suo Walid.

A differenza di Elisabeth, il ragazzo non sembrò provare le stesse sensazioni. Si limitò a dare uno sguardo veloce alle indicazioni e poi armeggiò con il navigatore touch: «C’è un campo di volo, non troppo distante», riferì, un filo di voce. «Vi lascerò lì! Dopodiché dovrete cavarvela da soli».

Viola attorcigliò con l’indice i capelli, meditabonda. Elisabeth, invece, fingendo di ignorare quelle parole, si tuffò nuovamente nel monitor del portatile. Sistemò il cavetto USB sul sedile e mosse il polpastrello sul touchpad. «Questo sì che è interessante!», disse poi, rivolta a Viola. «Tu l’avevi notato?»

«Cosa?»

«L’orologio di mister Kevod». La ragazza sussurrò appena, indicando il polso dell’agente, che dormiva con la testa appoggiata al vetro. Dalla porta Type-C del dispositivo di Henkel partiva un cavo che arrivava direttamente al suo computer. Lo aveva collegato alcuni minuti prima, quando Henkel si era già addormentato.

«Cos’ha di particolare?»

«Non è un normale orologio». La ragazza premette una combinazione di tasti sulla tastiera e mostrò una finestra piena di numeri e codici. «È collegato a una fonte remota. Riceve e trasmette dati in continuazione!».

Viola aggrottò la fronte. «Che genere di dati?»

«Non ne sono certa, ma direi informazioni biometriche. Battiti cardiaci, pressione sanguigna, cose del genere… C’è anche una specie di conto alla rovescia e non c’è modo di azzerarlo o resettarlo. E poi c’è…».

«Cosa diavolo stai facendo?», intervenne Henkel, strappandosi il filo che pendeva dallo smartwatch. Poi si assestò sul sedile e contemplò per alcuni istanti il mare nero. «Cos’hai fatto al mio orologio?».

La ragazzina parve risentita e scattò indietro. «Nulla… ma forse sei tu che dovresti spiegarci perché quell’aggeggio trasmette costantemente la nostra posizione!».

A quelle parole Viola trasalì. Improvvisamente, tutte le certezze che credeva di avere sull’agente dell’SSV parvero venire meno. Si voltò verso di lui e, nonostante la penombra, lo trafisse con lo sguardo. «Credo tu ci debba qualche spiegazione!».