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Atene. 19:00.

-28:00:00 alla deadline.

 

Nel mese di ottobre l’acropoli di Atene chiudeva alle diciassette. Quando Henkel, Viola ed Elisabeth erano arrivati davanti ai cancelli che davano sul teatro di Dioniso, nei pressi del quartiere della Plaka, avevano quindi trovato ogni ingresso sbarrato e nessuno di guardia.

Era ormai buio e soffiava un vento gelido. Il piazzale era illuminato da pochi lampioni giallognoli e non c’era nessuno ad attenderli. Il messaggio di Yanis Simonides tuttavia era stato chiarissimo: aveva fornito le coordinate di quell’ingresso e l’orario, aggiungendo poi una sola parola: “Propilei”.

E così i tre si erano guardati spaesati e poi si erano ritrovati a seguire la giovane Elisabeth, che si era aggrappata alla recinzione e aveva scavalcato il cancello.

«Non sono convinta che entrare abusivamente sia stata una buona idea», aveva sibilato Viola subito dopo, mentre camminavano al buio lungo il viale alberato che saliva verso il Partenone.

Prima di raggiungere l’acropoli, il sottotenente aveva letteralmente assediato Andreas Henkel con le sue domande. Aveva voluto sapere quale fosse la sua reale missione e a cosa servisse quell’orologio. E lui le aveva raccontato l’intera vicenda, soffermandosi con enfasi sul veleno somministrato alla sua fidanzata e sul poco tempo rimasto per salvarla. Fino a due giorni prima, aveva spiegato, non sapeva nulla dei rotoli di papiro rubati a Firenze. Adesso, però, ritrovarli era diventata una questione di vita o di morte.

Viola aveva ascoltato in silenzio il racconto, un turbine di emozioni che però non aveva lasciato trapelare dallo sguardo impassibile. Era triste, si sentiva ingenua, ingannata e soprattutto arrabbiata con se stessa per non aver compreso prima quale fosse il reale fine dell’agente. D’altra parte, però, quella storia era riuscita a fornirle delle risposte a tante piccole domande che avrebbe dovuto porsi durante il viaggio: la fretta di Andreas a salire sul primo aereo per Gerusalemme oppure il suo modo di fare sbrigativo a Firenze, con il quale l’aveva convinta a seguirlo. Tutti tasselli che ora fornivano una spiegazione che però lei non aveva neppure mai cercato.

Ma in realtà che differenza faceva? In effetti, quale che fosse la ragione che aveva spinto l’agente dell’SSV a mettersi in viaggio, il loro sodalizio poteva andare avanti. A lei interessava arrestare il Toro per potersi scagionare, a lui recuperare quei rotoli. E probabilmente le due cose coincidevano… Certamente non sarebbe più riuscita a guardarlo negli occhi e a fidarsi di nuovo di lui, ma almeno per adesso le loro strade scorrevano parallele.

«È stato Simonides a dirci di entrare…». Elisabeth, con il fiatone, rispose alla domanda di Viola. Approfittò dell’illuminazione della splendida facciata del teatro di Erode Attico per lanciarle un’occhiata. «Il messaggio parlava esplicitamente dei Propilei, che sono all’interno della recinzione».

«Il greco sembra un uomo prudente», la supportò Henkel, sussurrando appena. «Il fatto di chiederci di incontrarlo proprio davanti a quello che era l’antico ingresso potrebbe avere un qualche significato simbolico… o forse ha solo lo scopo di verificare fino a dove siamo disposti a spingerci».

Viola scosse il capo. «Oppure è semplicemente una trappola…».

In quel punto, il piazzale lastricato che dava accesso all’odeo si trasformava in un sentiero che si inerpicava tra gli alberi sul pendio meridionale dell’acropoli. Guardando in alto cominciavano a vedersi, tra i rovi, le colonne monumentali dei Propilei, a cui era ispirata tutta l’architettura neoclassica dell’Occidente. Sembrava di vedere il disegno originale della porta di Brandeburgo o della Casa Bianca.

In fila indiana i tre cominciarono la salita, senza incontrare né guardiani né vigilanza di alcun tipo. Dopo alcuni minuti, inerpicatisi sul fianco della montagna, si trovarono su una sorta di terrazza naturale, affacciata sulla città sottostante. Erano nel luogo dell’appuntamento: davanti a loro adesso c’era la monumentale scalinata che, passando tra sei colonne doriche, dava accesso alla spianata dei templi. Dall’altra parte, invece, si godeva di una vista mozzafiato di Atene illuminata, su cui spiccava il tempio di Efesto.

«Avete sentito?». Viola si bloccò di colpo, il viso terrorizzato. «Ho udito dei passi. Arriva qualcuno!».

Henkel ed Elisabeth si guardarono attorno, in cerca di un posto in cui nascondersi. Ma non era facile: l’unica via d’uscita era il vialetto dal quale erano arrivati… lo stesso da cui provenivano i passi.

«Là dietro», ordinò l’agente, salendo a grandi falcate in direzione delle colonne. Divorò la scalinata che lo separava dal cancello e si accosciò, nascosto dal ponteggio di un restauro. Le due ragazze lo seguirono, consapevoli che quel nascondiglio non sarebbe durato a lungo.

Un secondo dopo dall’oscurità filtrò la luce di una torcia elettrica.

«Io l’avevo detto che era meglio aspettare fuori», ridacchiò Elisabeth, nonostante la tensione. Era capace di scherzare anche in un momento come quello: si erano intrufolati abusivamente all’interno dell’acropoli e non avevano documenti. Se fossero stati fermati la loro ricerca si sarebbe interrotta seduta stante…

«Vges éxo!», ingiunse una voce afona in greco. «Xéro óti eíste ekeí».

I tre intrusi trattennero il fiato fino a che da dietro un capitello non videro sbucare la figura scura di un uomo muscoloso. Da quella posizione non erano in grado di vederlo in faccia anche perché la luce della torcia danzava davanti a lui come una ballerina di sirtaki.

“Potrebbe essere il Toro?”, si domandò Viola, portando istintivamente la mano alla cintura in cerca di un’arma che non c’era.

«Vges éxo. Xéro óti eíste ekeí», ripeté ancora la voce gutturale, avvicinandosi alla loro posizione. Subito dopo tradusse il messaggio anche in inglese: «Venite fuori. So che siete lì».

E un istante dopo se lo trovarono davanti, la luce della torcia puntata sui loro visi impauriti.