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Roma, fine di maggio dell’anno 1217.

 

Il nobiluomo smontò dal suo purosangue e si avviò a piedi per un sentiero che saliva tra due filari di cipressi.

Faceva caldo e l’usbergo di cuoio incrociato che gli cingeva il capo lo faceva sudare. Scostò il mantello su una spalla e cercò di far passare un po’ d’aria attraverso la sopravveste bianca.

Oltre gli alberi, addossato a un cielo azzurro senza nuvole si cominciava a intravedere il tetto rossiccio della basilica di Santa Sabina. Dietro di lui, ai piedi dell’Aventino, la città sembrava silenziosa.

«Ben arrivato», lo salutò un giovane sacerdote dagli occhi vispi. «Sua Santità vi aspetta nel chiostro».

Guillaume de Chartres alzò lo sguardo fiero e annuì. Era figlio del conte di Bar-sur-Seine ed era il quattordicesimo Gran Maestro dei Templari. Negli ultimi otto anni, alla guida di un manipolo di valorosi guerrieri, aveva condotto campagne dalla Terra Santa alla Cilicia. Nel castello di Port-Bonnel, nel lembo più orientale del Mediterraneo, era anche rimasto ferito e ancora portava i segni di una dura battaglia.

«Di cosa vuole parlarmi?», domandò con un filo di voce il cavaliere. «Il messaggero mi ha riferito che è questione di vitale importanza».

Il prete scosse il capo, mordicchiandosi il labbro inferiore. «Da qualche tempo Sua Santità appare molto preoccupato». Nel frattempo i due arrivarono davanti a un grande portone, che il sacerdote aprì solo per metà. «Qualcuno dice che sia a causa della crociata. La data fissata per l’inizio è il primo giugno, tra pochi giorni».

All’interno della cattedrale la temperatura era piacevole e de Chartres cominciò a respirare con meno affanno. La gamba gli doleva e il viaggio per raggiungere il pontefice sull’Aventino era stato lungo e faticoso. Soprattutto se considerava che aveva dovuto compiere l’ultimo tratto da solo, lasciando i suoi uomini sul Palatino.

Attraversò l’abside semibuia, rischiarata soltanto da alcune candele ai piedi dell’altare, e inforcò una porta nei pressi del transetto. Sbucò in un chiosco verdeggiante, cinto da piccole colonne disposte su file di due.

Il papa Onorio III era in piedi, sotto un arco intonacato di fresco e poco distante da una zona ancora in costruzione. Nonostante indossasse una tunica bianca aveva l’aspetto di un architetto: gesticolava e dava istruzioni ai manovali arrampicati su un ponteggio.

Il Gran Maestro assunse un’espressione meditabonda; si tolse l’usbergo, facendo cadere i lunghi capelli biondi sul mantello, e si avvicinò.

«Sua Santità», balbettò, inginocchiandosi per baciare la calzatura del pontefice. «Sono venuto appena ho potuto».

Il papa lo invitò ad alzarsi e fece strada lungo il porticato. Quando raggiunse la parte opposta al cantiere si fermò. Dalla loro posizione si vedeva la facciata imponente della cattedrale e il tetto spiovente. «Guillaume, è un piacere vedervi».

Il cavaliere tenne lo sguardo basso e attese che il pontefice spiegasse il motivo di tanta urgenza.

«Avete mai sentito parlare di un’isola a nord della Britannia?».

De Chartres annuì lievemente con il capo. «La terra dei ghiacci», dedusse poi, un lieve sobbalzo nella voce. «Si dice sia un posto inospitale, distante sei giorni di navigazione dal continente».

«È un luogo in pace, dove gli infedeli sono ormai convertiti», lo corresse il pontefice.

Il cavaliere annuì, non capendo cosa il papa volesse da lui. «Mi avete domandato di portare ottanta cavalieri fidati, Santità», sussurrò poi. «Se quell’isola è già convertita non comprendo cosa mi state chiedendo».

Il papa si accarezzò la barba e sospirò. «Ho una missione per voi: c’è un luogo su quell’isola, chiamato Thingvellir. Ogni estate si tiene l’adunanza dell’Althing, il parlamento. Lì, i capi tribù prendono le decisioni per i mesi a venire».

De Chartres alzò per un istante lo sguardo dubbioso, incrociando gli occhi del pontefice. Si domandò cosa avesse a che fare quel racconto con lui.

«…Ho appena ricevuto una lettera dall’annunciatore del parlamento, un poeta di nome Snorri Sturluson. Sarà a Thingvellir tra poco più di un mese e dice di essere disposto ad aiutarci».

“Aiutarci per cosa?”.

«Perdonate, Santità», il Gran Maestro indugiò per un secondo, poi proseguì: «Non capisco qual è il mio ruolo in questa vicenda».

Onorio III gli appoggiò una mano sulla spalla. Poi, a fatica, pronunciò parole solenni che non avrebbe più dimenticato. «La cristianità è in pericolo. Ci aspettano sconvolgimenti inauditi… a meno che voi non portiate a termine la missione che sto per affidarvi».

De Chartres deglutì. Era abituato a rischiare la vita per la Chiesa e per il suo pontefice, ma quelle parole lo lasciarono perplesso. La quinta crociata era alle porte, ma sembrava che il papa si stesse riferendo a qualcosa di diverso. Il suo sguardo terrorizzato, poi, gli metteva i brividi.

Ci fu un lungo silenzio. Alla fine, Onorio raccolse il fiato che aveva in corpo e proseguì: «C’è un baule. Nessuno deve aprirlo, nessuno deve sapere cosa contiene». Abbassò la voce per paura che qualcuno lo potesse udire. Programmare quella missione gli era costato fatica e vite umane. Si era però convinto che non ci fosse una soluzione migliore. «Vi chiedo di scortarlo in quella terra, a sei giorni dalla Britannia. Custodirete il baule a costo della vostra stessa vita e lo seppellirete dove vi verrà indicato».