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Base di ricerca Sito A, Nord dell’Iran. 00:10.
-00:19:04 alla deadline.
La stanza asettica del laboratorio di biologia molecolare era immersa nel silenzio. Per lavorare in sicurezza, era stata sterilizzata con raggi UV ed era la prima volta che veniva utilizzata.
All’interno, accanto a una cappa a flusso laminare, Herman Van Buuren era intento a prelevare alcuni microgrammi di papiro dalla superficie dei manoscritti.
Era euforico. Aveva trascorso gli ultimi giorni ad attendere quel momento e finalmente era arrivato. L’aereo con i rotoli era da poco atterrato sulla pista della base e lui si era messo subito al lavoro.
Aveva scelto accuratamente la zona su cui intervenire, selezionando un lembo di circa un centimetro in cui non vi erano scritte, e si era preparato per l’operazione. Il rischio maggiore era la cosiddetta cross-contaminazione, l’eventualità cioè che il DNA contenuto nel reperto si mescolasse con materiale genetico estraneo. Per quella ragione Van Buuren, avvolto in una tuta sterile azzurra, respirava attraverso una mascherina e indossava anche degli occhiali speciali.
Fortunatamente, nonostante non fosse possibile ricostruire gli spostamenti degli ultimi giorni, i papiri sembravano in ottimo stato. E di certo, ai fini della conservazione del DNA fossile, avevano giovato anche i precedenti otto secoli, in cui erano stati sepolti in una landa desolata dell’Islanda.
Con l’aiuto dello stereomicroscopio, lentamente avvicinò il bisturi al papiro e tagliò con precisione la superficie scabra. Impiegò i successivi minuti per sterilizzare il reperto e inserirlo in una microprovetta. Aggiunse il tampone di estrazione e tirò un sospiro di sollievo. Per quella sera aveva concluso le operazioni: prima di poter disporre dell’estratto di DNA fossile sarebbero infatti dovute trascorrere diverse ore di incubazione a sessanta gradi. Ciò nonostante, lui già pregustava la fase successiva, quella in cui avrebbe inserito il frutto delle sue fatiche prima in un plasmide e poi in un agrobatterio.
Era lo stesso procedimento che si utilizzava per creare gli OGM: sfruttava una particolare attitudine del batterio, il quale era in grado di innestare DNA esogeno nei cromosomi di una cellula vegetale. Le cellule così modificate sarebbero state fatte crescere e le relative piante avrebbero poi contenuto il DNA fossile estraneo, integrato come proprio corredo genetico.
Sapeva che con una monocotiledone come il papiro il risultato era tutt’altro che scontato. Forse avrebbe potuto addirittura scegliere la tecnica del bombardamento con microproiettili di oro o tungsteno. Ma non lo aveva fatto. I suoi studi sui geni ricombinanti, il motivo principale per cui era stato scelto da Xiaochen Zhao, gli dicevano che era sulla strada giusta. E in ogni caso, se avesse fallito avrebbe potuto sempre riprovare con gli altri tredici rotoli… con buona pace delle cavie alle quali era stato somministrato l’enzima di restrizione.
«Dottor Van Buuren, scusi se la disturbo». Il viso di Henry Lee, il capo della sicurezza, comparve sul monitor dell’interfono. Era un cinese cresciuto in Inghilterra e, forse a causa della calvizie, sembrava più vecchio dei suoi trent’anni.
Lo scienziato alzò lo sguardo verso il fornetto di ibridizzazione, dalla parte opposta del laboratorio, e lo fissò in cagnesco attraverso il grande display appeso alla parete.
«Forse abbiamo un problema», disse Lee, con il suo pronunciato accento da east ender londinese.
«Avevo detto che non volevo essere disturbato», lo rimproverò l’olandese, seccato.
«Lo so», si giustificò il capo della sicurezza. «Ma credo che quello che sto per mostrarle le interessi parecchio…».
Nello schermo comparve l’immagine in 8K ripresa dall’ingresso ovest della base. Sullo sfondo si vedevano i manifestanti accampati, ma in primo piano c’era un piccolo oggetto, che si muoveva lentamente verso il cancello.
«Di cosa si tratta esattamente?», chiese Van Buuren, riponendo il microtubo che stringeva tra i polpastrelli.
«Sembrerebbe una specie di ragno telecomandato».
«Ma che diavolo…? Un momento». Un’espressione preoccupata, se non addirittura di terrore, si dipinse sul volto dell’olandese. «Faccia intervenire una squadra. Presto, non c’è un secondo da perdere!».