Prologo
Stella Rosati non si era mai trovata faccia a faccia con la morte. Fino a quel momento. Mentre una lacrima le solcava la guancia, ebbe la certezza che la sua ora era arrivata.
L’uomo le infilzò nuovamente l’ago nel braccio. Lei provò a muoversi, ma senza successo. Avrebbe voluto opporsi, ma non poteva.
Era sdraiata su una lastra d’acciaio gelida, in una grande stanza avvolta nella penombra. Polsi e caviglie erano immobilizzati con legacci di cuoio e attorno alla bocca era fissato un oggetto cilindrico che non le consentiva di urlare. Tremava, e le sembrava che il suo cuore martellasse direttamente nei timpani.
Fissò il suo aguzzino, in piedi accanto a lei: aveva un viso pallido, scavato e dominato da due occhi ferini. Si muoveva lentamente, con una macabra calma che le metteva i brividi. Stava armeggiando con la flebo. Ancora.
«Fai la brava», sussurrò beffardo, con accento del Nord Europa. «C’è un piccolo cambio di programma».
Stella distolse lo sguardo. Non sapeva dove si trovasse e non riusciva a ricordare da quanto tempo era lì. Le droghe che le erano state somministrate le avevano fatto perdere la cognizione del tempo.
Cercò di concentrare i suoi pensieri altrove: la sua unica certezza era la fila di neon bianchi e abbaglianti, tesi sopra di lei, che la accecavano. Oltre la campana di luce, con la coda dell’occhio, vedeva un grande spazio vuoto che si perdeva nell’oscurità. Non c’era nessuno, anche se in lontananza si sentivano rumori di passi e voci. Sul fondo del locale riusciva a distinguere i riflessi di una grande vetrata e oltre, forse, una porta scorrevole.
Non ricordava con esattezza come fosse arrivata lì, ma aveva bene impresso il momento in cui aveva aperto gli occhi. L’ombra sfuocata che adesso era accanto a lei si era materializzata dal nulla, aveva stretto i legacci e le aveva tagliato un braccio con qualcosa di appuntito. Lei aveva provato a urlare, ma dalla sua gola era fuoriuscito solo un rantolo muto. Poi, l’uomo le aveva fatto un cenno con le dita: un “due” accompagnato da un sorriso gelido.
Quella parte la ricordava alla perfezione, la deadline, la linea di non ritorno, sarebbe arrivata alla siringa numero “tre”.
Quanto tempo era passato da allora? Non lo sapeva con precisione, ma con ogni probabilità troppo. Pur essendo un magistrato che aveva a che fare ogni giorno con i crimini più efferati, non aveva mai pensato a un evento come quello. E soprattutto non aveva mai pensato alla morte. Ma adesso era certa che il suo momento fosse arrivato.
Terrorizzata, cercò di osservare il macchinario al quale era collegata: un dispositivo elettronico grosso come un lettore blu-ray, con led luminosi e varie file di pulsanti. Una serie di tubicini trasparenti fuoriuscivano dal retro e nella parte superiore erano sistemate alcune boccette simili a grosse siringhe. Ciò che le interessava però era il piccolo timer che segnava le ore e i minuti che le restavano da vivere. L’ultima volta che glielo avevano mostrato indicava quarantatré minuti. E da allora era passato molto tempo…
“Quanto manca?”, avrebbe voluto domandare, ma dalla sua bocca non usciva alcun suono. Prima di quel momento, in un attimo di lucidità – dovuto probabilmente al sopirsi dell’effetto dell’anestetico – era riuscita a muovere una mano. “Non è poi così stretto”, si era detta, roteando il polso all’interno del legaccio. Ma appena aveva provato a far scorrere il braccio le forze l’avevano abbandonata di nuovo.
E adesso era lì, nuovamente lucida. Se davvero doveva morire, non voleva darsi per vinta senza combattere.
«Ti ascolto», disse d’un tratto il suo aguzzino, portandosi la mano all’orecchio. «Perché?».
Stella roteò le iridi. L’uomo si spostò dalla sua posizione e poi sussurrò nuovamente qualcosa al microfono.
Era il momento. Non avrebbe avuto un’altra occasione. Il nuovo anestetico non aveva ancora cominciato a scorrere nella flebo e l’effetto del vecchio doveva essere terminato. Era per forza così, perché i tagli sui polsi avevano ricominciato a farle male.
Provò a muovere le dita. Fece un respiro profondo e con sua stessa sorpresa riuscì a serrare il pugno. Lo fece scorrere e in un secondo fu libero.
L’uomo, distratto dalla radio, non la vide. La sua espressione divenne rabbiosa. «Quindici?», sibilò ancora. «Non è possibile!».
Stella estrasse il pugno dal legaccio. Accanto al letto c’era un carrello sul quale erano poggiati attrezzi medici. Alcuni erano appuntiti. Ne afferrò uno e, con tutta la sua forza, fece roteare il braccio verso il suo aguzzino.
Tutto accadde così velocemente che l’uomo fu preso alla sprovvista. La intravide con la coda dell’occhio e fece solo in tempo ad alzare il bicipite a protezione del viso. Ma lei fu più rapida e riuscì a piantargli il bisturi in un bulbo oculare. La lente dell’occhiale si frantumò, investendola di schegge. Un fiotto di sangue le zampillò addosso e imbrattò il camice bianco con il quale era vestita.
«Brutta puttana!», imprecò l’aguzzino, che si portò le mani agli occhi.
Stella si mise seduta. Liberò le caviglie e scese dal lettino. Il pavimento era gelido e faticò a mantenere l’equilibrio. Si appoggiò alla sbarra d’acciaio e tirò a sé il dispositivo al quale era ancora collegata. Il display era acceso e lampeggiava. Segnava 00:00:00.
Deadline.
Un terrore mai provato prima cominciò a montarle dentro. Le parve che tutto il sangue del suo corpo si concentrasse verso il cervello. Sentiva il cuore martellare e le vene pulsare.
Sarebbe morta. Il punto di non ritorno era inesorabilmente arrivato. Il panico si impadronì di ogni sua fibra.
In un impeto di rabbia strappò il catetere dal braccio e rovesciò il macchinario.
Nello stesso istante, sul fondo del locale una porta si spalancò. Nella penombra individuò la figura di un uomo che avanzava verso di lei. In mano stringeva una pistola.
«Ferma o sparo!», ringhiò con il suo inconfondibile accento ceco. Era la voce di Andreas Henkel, quello che era stato forse il suo più grande amore, e il tono era tutt’altro che amichevole.
Poi un rumore sordo risuonò nel locale come un tuono. Non comprese cosa era accaduto, ma un dolore lancinante la trapassò dalla schiena fino alle caviglie.
“Perché, Andreas?”, avrebbe voluto domandare.
Ma era troppo tardi.
Le sue gote divennero calde e un rivolo di sudore le bagnò la fronte. Poi sentì un freddo improvviso e le gambe cominciarono ad abbandonarla. Le parve che il cuore smettesse di battere.
Il terrore si trasformò in oscurità e il buio la avvolse.