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Aeroporto di Malpensa. Nello stesso istante.
-51:54:25 alla deadline.
Nato per diventare l’hub più importante del Sud Europa, l’aeroporto di Malpensa era rimasto l’eterno incompiuto. Pur essendo il secondo scalo italiano per numero di passeggeri, da diversi anni la maggior parte delle principali compagnie aveva abbandonato Milano per Roma Fiumicino. Non così la El Al, che settimanalmente programmava un volo diretto per Tel Aviv.
Ai controlli di sicurezza prima del gate B5, quello destinato al vettore di bandiera israeliano, quella sera era di turno l’agente Ruggero della polizia di frontiera. Era stata una giornata tranquilla, con pochi voli intercontinentali e diversi collegamenti con Parigi Charles de Gaulle e Londra-Heathrow. Il giovane aveva controllato decine di passaporti, inserendo il nome nel sistema informativo e attendendo che da una banca dati arrivasse l’ok. E non c’erano stati intoppi per tutto il turno.
«Avanti», annunciò, muovendo il mouse del suo terminale. Di fronte a lui, oltre la vetrata e il metal detector, c’era un centinaio di viaggiatori in fila. Erano incolonnati ordinatamente lungo il corridoio, dietro a nastri colorati che incanalavano la coda. «Prego».
Una coppia di anziani, lei con il bastone e lui con un vistoso cappello da cowboy, gli andò incontro.
«Il prossimo», disse ancora il poliziotto, l’aria stanca. Ormai era alla fine della giornata lavorativa: una volta verificati i documenti del volo LY382 delle 20:50, se ne sarebbe tornato a casa. Per quella partenza non erano state segnalate allerte particolari, anche perché, dopo di lui, i funzionari israeliani avrebbero ricontrollato da capo tutti. In ogni caso, aveva già verificato la lista dei passeggeri e la maggior parte aveva un passaporto comunitario. C’erano poi alcuni israeliani, una decina di americani e due svizzeri. Nessuno necessitava del visto d’ingresso. «Avanti», ripeté ancora.
Nello stesso istante, il fax sistemato sulla scrivania dietro Ruggero squillò sommessamente e cominciò a sputare fogli A4. Il primo era una lettera di mezza pagina, scritta in Times New Roman. Sopra c’era il logo di un tribunale. L’oggetto diceva: “M.A.E. ex art. 28 co. 1 lett. a L. 69/2005”. L’acronimo M.A.E. stava per Mandato di Arresto Europeo.
Henkel e Viola si mossero di qualche passo. Erano verso la metà della coda, nel grande atrio illuminato dell’aeroporto.
La ragazza era scura in volto. Non aveva parlato ed era imbronciata. «Stiamo facendo la cosa giusta?», sussurrò a un certo punto, così piano che l’agente dell’SSV faticò a udirla.
Lui volse lo sguardo alla vetrata che dava sulla pista. Un grosso Airbus con il logo Emirates sulla livrea stava spiccando il volo. «Se hai un’idea migliore ti ascolto volentieri», le rispose.
«Non sono più tanto sicura che espatriare in questo modo sia la cosa giusta», sentenziò lei, ma con un tono di voce che sembrava tutt’altro che deciso. «Dovremmo consegnarci…».
Henkel sorrise, mostrandole il biglietto aereo e il passaporto rosso con la croce bianca. «Non ti sembra un po’ tardi?».
Viola non ribatté e si limitò a far cadere lo sguardo sul documento. Era stata lei a procurarlo per entrambi. Subito dopo essere partiti da Bologna, i due avevano programmato di rintracciare tutti i partecipanti all’asta. Solo due erano ancora in vita, uno a Gerusalemme l’altro ad Atene: il responsabile dell’attentato, forse, poteva essere uno di loro.
Una volta verificati gli orari da Malpensa avevano optato per Israele, visto che c’era un volo della El Al in partenza per quella sera stessa. Viola, che prima di essere trasferita al Nucleo Beni Culturali si era occupata di indagare su documenti contraffatti e denaro falso, aveva pensato al resto. Avevano raggiunto Gallarate, poco a nord dell’aeroporto, e avevano rintracciato una sua vecchia conoscenza, “fuori” in libertà condizionata.
«Sono pulito adesso, Puccini!», si era giustificato lui, quando insieme a Henkel si erano presentati fuori da casa sua.
Lei non gli aveva creduto. Sapeva che quell’omino di mezza età, apparentemente mite e riflessivo, nascondeva in cantina un vero e proprio laboratorio da falsario. I carabinieri della sua ex Compagnia lo tenevano d’occhio da tempo, aspettando solo di poter beccare i pezzi grossi per i quali lavorava.
«Ho bisogno di due passaporti sicuri», gli aveva detto lei, con la massima onestà e senza giri di parole. «È un favore personale che non dimenticherò…».
E lui, che aveva compreso l’affare, l’aveva accontentata, sperando di incassare prima o poi quel grosso credito.
Poco dopo, la fotografia di Viola e quella di Henkel erano apposte su due passaporti svizzeri apparentemente perfetti.
«È troppo tardi, e lo sai anche tu». Andreas Henkel intravide un’ombra di terrore negli occhi verdi del sottotenente, ma decise ugualmente di non rivelarle il vero motivo di tanta fretta. «So che hai paura, ma ragiona: qualcuno ti ha incastrato. Se ti consegni farai solo il loro gioco».
Viola sospirò. In fondo sapeva che Henkel aveva ragione. Nelle ultime ore ci aveva già riflettuto a lungo. Ma il suo carattere era così: a fasi in cui era assolutamente certa di ciò che doveva fare, alternava momenti di dubbi e incertezze. Aveva solo bisogno di qualcuno che le rassicurasse, che le dicesse che stava facendo la scelta giusta. Henkel in quel caso, un uomo che conosceva appena ma che si era dimostrato pieno di risorse. «E se si accorgessero che i passaporti sono…?», sospirò.
L’agente vaticano, che conosceva bene i controlli israeliani, si accarezzò il mento, reso ispido dalla barba di un giorno. Si schiarì la voce e disse: «Auguriamoci che non accada!».
Pochi minuti più tardi la fila di fronte al controllo passaporti si era assottigliata. Rimaneva una ventina di persone in tutto. C’era ancora una scolaresca del torinese, due anziani israeliani e una coppia di svizzeri.
Ruggero digitò il cognome del ragazzo che gli stava di fronte: capelli rasta, orecchini in entrambi i lobi e tatuaggi sul collo. Pulito, nonostante le apparenze… «Avanti».
Dietro di lui, intanto, il fax aveva terminato la stampa di alcuni fogli. Mentre una nuova pagina cominciava a sbucare dal rullo, una coppia si presentò davanti all’agente.
«Depositate gli oggetti metallici nell’apposita vaschetta», l’addetto alla perquisizione ripeté la sua cantilena e guardò appena Viola e Henkel. «Avete liquidi oltre i cento millilitri? Medicinali?».
La giovane sottotenente scosse la testa e consegnò passaporto elvetico e carta d’imbarco. Tolse le scarpe da tennis – comprate, insieme alla felpa e ai jeans in un autogrill nei pressi di Bologna – e si infilò sotto il metal detector alla destra di Ruggero.
Henkel fece lo stesso dal lato opposto, ma mentre un agente lo perquisiva, fece cadere lo sguardo sull’addetto al computer. Stava digitando il suo nome sulla tastiera. Per un istante si fermò, dubbioso, ma poi passò al documento di Viola.
E in quel momento Andreas rimase folgorato. Dietro alla postazione di verifica era sistemato un grosso fax Panasonic. Su un foglio appena uscito, sotto una scritta che non riusciva a leggere, si vedeva il volto sorridente proprio di Viola. La fotografia era la stessa che avevano trasmesso alla TV, probabilmente scattata durante l’Accademia.
Si voltò verso la ragazza. Aveva lo sguardo teso, ma si stava rimettendo le scarpe. Non sembrava essersi accorta di nulla.
Henkel trattenne il respiro, pregando che l’agente non si voltasse verso il fax. Se solo si fosse girato avrebbe avuto la faccia della ragazza, stampata sul mandato di cattura, davanti al naso. Ma non sembrava avesse intenzione di farlo: stava ancora indugiando sui passaporti, digitando qualcosa sul computer.
In quel momento, il metal detector sotto cui stava passando l’agente dell’SSV suonò.
«Orologio? Monete?», fece il poliziotto che gli stava di fronte.
Lui sorrise. Sapeva che più tempo sarebbe rimasto ai controlli, più sarebbe stato probabile che il fax venisse notato.
«Riprovi», bofonchiò l’addetto.
Ripassò sotto il dispositivo e questa volta ebbe più fortuna. Nessun suono. Tirò un sospiro di sollievo e attese che il passaporto gli venisse restituito.
Ma il militare al controllo stava ancora indugiando.
Trascorsero cinque secondi, poi dieci. Infine il giovane alzò lo sguardo dalla tastiera e gli restituì il documento.
Henkel lanciò un’occhiata a Viola. Anche lei aveva già superato il controllo e adesso era impaziente ad alcuni metri di distanza.
Ce l’aveva fatta.
Fece alcuni passi verso di lei.
Mentre si allontanava, il fax finì di stampare l’ultimo foglio, quello con la sua fotografia.
«Aspetti». Improvvisamente l’espressione del poliziotto si fece cupa.
Henkel si bloccò di colpo. Sentì il sangue gelargli nelle vene. Mille pensieri indistinti gli balenarono davanti agli occhi, ma solo uno compiuto: per Stella era finita.
Si voltò lentamente.
L’agente gesticolava, ma invece di avere uno sguardo truce aveva un tiepido sorriso stampato sul sorriso. Indicò il nastro trasportatore e disse: «Signor Sutter, non dimentichi il computer!».