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Base di ricerca Sito A, Nord dell’Iran. 00:37.
Graham Dawe era senza fiato, incapace di respirare e immobile sulla balaustra dell’hangar 2.
Era entrato nell’edificio, del tutto identico a quello in cui si era infilato Henkel, nel tentativo di sfuggire agli aggressori sulla jeep. Dopo la fuga del suo collega, le guardie della base avevano provato ad accerchiarlo, ma lui era riuscito a tornare sui suoi passi, svoltando poi in una strada parallela. Da lì, seguendo gli schiamazzi dei manifestanti, si era arrampicato sulla scala antincendio e aveva infilato la porta di sicurezza, già aperta. E una volta affacciatosi sul ballatoio interno, che dominava dall’alto la grande costruzione, era rimasto come paralizzato.
Davanti a lui si apriva un immenso spazio illuminato a giorno. Aveva le dimensioni di un campo di calcio, alto come un edificio di tre piani e sormontato da un tetto curvo. Sopra le luci bianche, che pendevano a metà altezza, si vedevano i riflessi di alcuni lucernari. Aleggiava odore di chiuso e si udivano voci, lamenti e qualche grido. Quello che lasciava senza parole era però ciò che si trovava al suo interno: decine, se non centinaia, di letti allineati.
Sembrava di osservare una parata militare, con la differenza che al posto dei soldati sull’attenti, c’era uno schieramento di giacigli bianchi. Erano vicinissimi, quasi addossati gli uni agli altri e tutti occupati da persone, apparentemente prive di sensi e collegate a strani macchinari… Erano cavie umane.
Distolse lo sguardo e in quel momento, la grande vetrata sul lato nord, che occupava l’intera parete, fu abbattuta. Decine di manifestanti si riversarono all’interno, avanzando tra i letti come avrebbe fatto una cisterna d’acqua cosparsa sul pavimento. Alcuni si fermarono, per verificare che le brande non fossero occupate da un loro caro, altri proseguirono dritti, rovesciando tutto ciò che gli si parava davanti.
Per evitare di essere visto, Dawe si mosse. Indietreggiò sulla balaustra fino alla parete sud, dove c’era una porta identica a quella da cui era entrato. La aprì, appoggiandosi al maniglione antipanico, e si ritrovò all’aperto, affacciato sul grande piazzale illuminato dalle fotoelettriche. Alcuni camion, carichi di sacchi neri, erano parcheggiati sotto di lui, dietro ciascun hangar. Oltre, si stagliava l’imponente cupola della serra, che brillava alla luce della luna. Di fronte c’era il Black Hawk con il rotore in movimento.
«Per di qua!». Una voce ben nota lo strappò ai suoi pensieri. Si concentrò su un altro capannone, a un centinaio di metri di distanza, e gli parve di riconoscere la figura imponente di Hannibal Gutierrez. Sembrava si stesse dirigendo all’elicottero, insieme a un cane e a un drappello di uomini, due dei quali trasportavano un grosso baule metallico.
Non perse troppo tempo a riflettere: se Henkel aveva avuto successo era necessario pianificare l’abbandono della base. E anche in caso contrario lui avrebbe comunque avuto bisogno di una via di fuga…
Si precipitò giù dalla scala antincendio e, approfittando del fatto che il colonnello si era fermato, lo raggiunse. «Ho bisogno di un passaggio!», scherzò.
Gutierrez lo squadrò con sorpresa e sorrise. «Non credevo ce l’avreste fatta!», commentò schietto, spostando il sigaro tra le labbra.
“Non di certo grazie a voi”.
Intanto, il labrador stava abbaiando. Strattonò il guinzaglio, per avvicinarsi a uno dei camion, e si sollevò sulle zampe. Il conduttore lo assecondò e raggiunse il rimorchio, colmo di sacchi neri.
«Sono cadaveri», riuscì appena a mormorare, osservando una mano femminile che fuoriusciva da uno degli involucri. Come gli altri soldati non sembrava un tipo che si impressionava facilmente, eppure, dal tono di voce, quella vista macabra pareva averlo turbato.
«Ci sono centinaia di cadaveri», gli fece eco un altro, che con un coltello aprì alcuni dei rivestimenti. Fuoriuscirono gambe, braccia, mani e piedi. Erano tutte donne, tutte apparentemente giovani e tutte nude. Nel migliore dei casi i corpi erano raggomitolati in posizione fetale, negli altri erano ammassati l’uno sull’altro.
Dawe trattenne un conato di vomito.
«Che razza di posto è questo?», domandò Gutierrez, facendo spaziare lo sguardo da un camion all’altro e poi fermandosi sul baule. Non doveva avere un’espressione molto diversa dai primi testimoni entrati nei campi di concentramento nazisti.
«Ogni scoperta richiede un prezzo da pagare…». Graham ricordò le parole della direttrice della base. «Non potevamo certo aspettare che le cavie invecchiassero naturalmente!». Adesso tutto era chiaro: i cinesi avevano velocizzato artificialmente l’invecchiamento di quelle donne per testare l’efficacia del loro albero della vita, esattamente come avevano fatto con Stella. Quelle erano le cavie sulle quali gli esperimenti non avevano avuto successo…
«Ogni scoperta richiede un prezzo da pagare…».
L’F-14 Tomcat iraniano salì di quota e quando fu sopra il mar Caspio virò di pochi gradi, in direzione del confine con l’Armenia.
Era decollato sette minuti prima, insieme al velivolo che lo seguiva, da una base a nord di Teheran. L’allarme era suonato poco dopo la mezzanotte ma erano occorsi diversi minuti prima che fosse chiaro cosa stava accadendo: lo spazio aereo iraniano era stato violato da due elicotteri Black Hawk provenienti dalla Turchia. Era certamente una sortita ostile, anche se non era ancora possibile identificare la destinazione esatta del raid.
Il generale Rasoul Hajsafi, convinto che l’obiettivo potessero essere le centrali nucleari del Paese, aveva così dato ordine agli F-14 di decollare.
E adesso, i due migliori piloti dell’aviazione della repubblica islamica erano in volo a diecimila metri di quota, lanciati alla velocità di Mach 2.
«Otto minuti all’obiettivo», comunicò per radio uno dei due, dirigendosi verso il punto in cui era stata effettuata l’ultima rilevazione radar. I velivoli ostili sembravano essere atterrati nella regione dell’Azerbaigian orientale, a nord di Tabriz: da fermi erano bersagli estremamente più facili per i vecchi missili AIM-54 Phoenix che armavano il velivolo.
«Qui torre», dichiarò una voce via radio, dalla base di Teheran.
«Ti ricevo».
«Ho un nuovo contatto radar», riferì, con tono solenne. «Si tratta di un aereo. È appena decollato dalle stesse coordinate».
Viola ed Elisabeth si stavano avvicinando all’elicottero americano, che aveva azionato il rotore principale, quando udirono un forte frastuono.
Si voltarono dalla parte della pista di atterraggio, oltre gli hangar, e videro un grosso velivolo muoversi nei pressi del terminal. Lo seguirono con lo sguardo mentre prendeva velocità e spiccava il volo, con la grazia di un elefante impegnato nel salto in alto. Non sapevano chi potesse esserci a bordo, ma dalla rapidità con cui erano avvenute le operazioni di decollo, completate in pochissimi secondi, aveva tutta l’aria di una fuga.
«Dobbiamo andare», grugnì uno dei Seals, rivolgendosi alle due donne. Dietro di lui comparve un Labrador biondo e alcuni soldati di corsa, che sorreggevano un baule metallico.
«Presto!», rincarò la dose Gutierrez. «Gli F-14 saranno qui a momenti. Non c’è tempo da perdere».
«Attendiamo ancora», gli urlò Viola, per cercare di sovrastare il clangore dei rotori.
«Manca Henkel», intervenne Dawe, che era arrivato sul piazzale insieme ai militari. «Dagli ancora qualche minuto… sono certo che sta arrivando!».
«Non abbiamo qualche minuto», l’apostrofò Gutierrez. Poi mise un anfibio sull’elicottero e aiutò i suoi uomini a stivare il baule.
Nonostante il gracchiare dei rotori e il turbinio d’aria, calò un silenzio gelido. Viola ed Elisabeth, con la bambina in braccio, non si mossero, i capelli che sventolavano per lo spostamento d’aria.
«Presto, salite», ordinò ancora il militare, fermo davanti al portellone spalancato.
Dawe si voltò in direzione degli hangar. In effetti non c’era alcuna garanzia che Henkel ce l’avesse fatta né tantomeno che avesse individuato il Black Hawk come programmato. Scosse il capo e poi poggiò una mano sulla spalla di Elisabeth. «Dobbiamo andare».
«Non possiamo abbandonarlo…», singhiozzò lei, accarezzando il capo della bambina.
«Non abbiamo scelta». Per quello che poteva valere, lui sembrava realmente dispiaciuto. In fondo, però, era un militare. «Non sappiamo se Andreas ha avuto successo».
«Avete visto quell’aereo?», obiettò ancora Gutierrez, facendo capolino da dentro l’elicottero. «Sono scappati. E per quello che ne sappiamo potrebbero averlo portato con loro!».
Viola scosse il capo. Una ciocca di capelli le andò davanti agli occhi, nascondendo le lacrime.
E fu allora che la piccola Anahita, fino a quel momento apparentemente priva di forze, alzò la testa. Tese il braccino e indicò due puntini neri che avanzavano dalla parte opposta del piazzale.
«Sono loro!», annunciò il sottotenente, con sollievo. «È Andreas con la sua fidanzata».
Le due ombre si avvicinarono con sorprendente velocità: Henkel sorreggeva con il braccio una donna bionda, vestita con un camice, che però camminava sulle sue gambe.
Improvvisamente Anahita provò a divincolarsi per tentare di scendere.
Elisabeth, stupita, la adagiò sull’asfalto. Con un’energia sorprendente per una bimba così malata, Ana si mise a correre incontro a Henkel.
Lui, che l’aveva già presa in braccio subito dopo la morte del padre, pochi minuti prima, si abbassò e l’abbracciò. Non l’aveva mai fatto, ma in quella circostanza gli venne assolutamente naturale. La bimba si mise a piangere e lo strinse a sua volta.
«Presto!», gli urlò dall’elicottero Dawe.
Nel frattempo Viola ed Elisabeth salirono sul velivolo, aiutate da uno dei Seals.
«E la bambina?», abbaiò il militare appena i tre tentarono di fare lo stesso.
Henkel lanciò un’occhiata prima a Stella e subito dopo a Gutierrez. «La bambina viene con noi!».
Quindici secondi dopo, il Black Hawk si staccò dal suolo sollevando cumuli di polvere.
In silenzio, gli occupanti osservarono la base allontanarsi lentamente sotto di loro. Nel buio si vedevano i riflessi di due corsi d’acqua e alcuni focolai sugli edifici principali. Facendo spaziare lo sguardo si poteva notare l’elicottero precipitato ancora in fiamme. La cupola, vista dall’alto, sembrava ancora più imponente.
Viola la scrutò attraverso il vetro: quella grande costruzione era servita a far germogliare e crescere le piante che i cinesi credevano eredi dell’albero della vita. Era stato un impiego di risorse eccezionale, mirato a ottenere un fine certamente di pari valore: riuscire a prolungare la vita degli esseri umani… prima a centoventi anni e poi, magari, a mille, proprio come i Patriarchi biblici.
«Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è solo carne e la sua vita sarà di centoventi anni». Le parole di Elisabeth, che aveva citato la Genesi, le tornarono improvvisamente in mente. E in quel momento capì: accarezzò con la mano la lettera di Bonifacio, che aveva preso dall’alloggio della direttrice, e sorrise.
L’elicottero rollò, inclinandosi a destra, e puntò dritto verso la notte. Mentre il Sito A sprofondava, inghiottito dell’oscurità, Viola fissò i suoi compagni di viaggio sfiniti. Infine chiuse gli occhi.