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Bologna, inizio dicembre dell’anno 1206.

 

Viste dai colli bolognesi, le torri della città emergevano dalla nebbia come alberi di velieri in un mare grigio.

Il cavaliere spronò il suo destriero roano e seguì il torrente Apoxa fino alla zona del Mercato di Mezzo. Man mano che si avvicinava al centro cittadino la città pareva più animata. Lungo le vie infangate, tra capre e maiali che rovistavano nell’immondizia, notò un insolito andirivieni di uomini e donne. Alcuni trascinavano carretti di legno carichi di ortaggi, ma la maggior parte camminava confusamente sotto i portici per difendersi dalla fine pioggerellina.

Una campana risuonò lontano, in direzione del Roncrio, e subito dopo, da una stretta viuzza laterale comparve un gruppo di berrovieri del podestà. Procedettero a passo spedito, senza degnarlo di uno sguardo, e scomparvero dietro la basilica di Santo Stefano.

Il templare smontò da cavallo e abbassò il cappuccio del mantello, che fino a un attimo prima aveva tenuto calato sulla fronte. Nonostante il lungo viaggio era abbigliato elegantemente, così come si confaceva a un uomo del suo lignaggio: indossava una veste blu lunga fino al ginocchio, una vistosa cintura che bloccava le calzebrache scure e degli stivali di ottima fattura.

Era da poco suonato il Vespro e sapeva che più tardi fosse giunto a destinazione, più difficile sarebbe stato convincere messer Poggi a dargli udienza. Non l’aveva mai incontrato, ma il marchese Bonifacio lo aveva descritto come un uomo molto arguto, sebbene troppo timoroso della chiesa.

Raggiunto il Trebbo, la zona dove la maggior parte dei banchieri aveva bottega, chiese indicazioni per raggiungere l’abitazione che cercava. Un’anziana, avvolta in una veste senza maniche a dispetto del freddo, gli indicò un imponente portone poco distante.

«Il mio nome è Lanfranco di Cereseto», dichiarò l’uomo, appena vi fu davanti, rivolgendosi ai due armigeri che presidiavano l’ingresso. «Porto notizie dalla Terra Santa. Chiedo di parlare con messer Poggi di Monte Renzolo».

I due lo squadrarono da capo a piedi ma prima che potessero rispondere, Lanfranco estrasse un rotolo sigillato con impresso il simbolo di uno scudo.

Il più giovane dei due lo riconobbe, spalancò il portone e si mosse velocemente attraverso il giardino. La daga che teneva appesa alla cintura tintinnò.

«Prego, venite», balbettò l’altro, facendo grandi gesti con la mano. «Sarete esausto».

 

Poco dopo, quando fuori era già buio, una giovane venne a prendere l’illustre ospite nel salone dove era stato sistemato.

Indossava una tunica di lanetta bianca e una cuffia dello stesso colore. Sorreggeva un lume e accennò un breve inchino in direzione del cavaliere. «Il padrone vi attende», annunciò, accompagnando quelle parole con un tiepido sorriso.

Lanfranco appoggiò il bicchiere di stagno colmo di vino speziato sul tavolo e scattò in piedi. Afferrò le tre borse di cuoio che aveva portato con sé e seguì la donna lungo un corridoio semibuio. Giunta davanti a un uscio, accanto al quale erano sistemati alcuni cassoni di pioppo, lei bussò delicatamente e aprì.

Messer Poggi era in piedi, di spalle, intento a leggere un ingombrante volume miniato alla luce di due candelabri. Lo studio era spazioso, ma rotoli e pergamene erano sparsi ovunque e sui pesanti scaffali di cui erano piene le pareti erano impilati diversi libri rilegati in cuoio. Un odore di chiuso ammorbava l’aria e alcuni lumi rischiaravano la stanza.

Il padrone di casa era un uomo sulla cinquantina, grassottello e appesantito dagli anni. I capelli bianchi gli sfioravano la veste e, almeno da dietro, pareva soffrisse di gotta.

«Sit vobis benedictio Domini, magister», rese omaggio messer Lanfranco, in latino come da formalità.

«Domini venit vobiscum, dilectissime miles». L’anziano si girò lentamente verso il suo ospite, mostrando le guance arrossate come se fosse stato in preda ai fumi dell’alcol. «Mi dicono che portate notizie dal marchese degli Aleramici».

Lanfranco accennò una riverenza e poi mostrò il rotolo che aveva con sé, volgendo il sigillo di ceralacca verso la luce.

Poggi lo afferrò e lo studiò con attenzione: recava impresso il simbolo di Bonifacio.

«Il marchese mi prega di dirvi che ciò che leggerete è stato verificato da lui in persona».

Il padrone di casa si lasciò cadere su una sedia, ruppe il sigillo e verificò meglio la lettera: in alto era raffigurato lo scudo bianco e rosso che ben conosceva. Il testo era scritto con inchiostro nero ed era completamente in latino. Portò il rotolo a favore di luce e cominciò a leggere.

 

BONIFACIO, PER DEI GRATIAMBONIFACIO, PER GRAZIA DI DIO, marchese del Monferrato, re di Creta e re di Tessalonica, al suo diletto amico Poggi di Monte Renzolo, magister dello Studium, la salute e l’affetto sincero.

 

COME vi confidammo nella nostra precedente missiva, fin da quando ci fu affidato il peso del comando dello sforzo cristiano contro l’Oriente, temevamo che questo momento sarebbe giunto. Solo di voi abbiamo in animo di fidarci, poiché la vostra fama vi precede.

Certi che comprenderete, vi preghiamo, in virtù del nostro nome, di custodire gli scritti che il latore della presente porta con sé.

Prima di giungere a noi con l’ultima crociata, gli stessi furono custoditi da un solo uomo. Vi prego di dar credito alle nostre parole, quando vi dico che Egli trascorse la sua intera vita venerato come un Profeta, in un anfratto alla foce dei due fiumi. Per oltre mille anni, come i discendenti di Adamo, si dice avesse vissuto e vegliato su ciò che ora voi potrete vedere.

Quanto vi dico è ciò che noi abbiamo udito, appreso con i nostri occhi e toccato con le nostre mani. Possiamo prevedere il vostro stupore, ma ci rivolgiamo a voi proprio perché confidiamo che comprenderete il messaggio, come noi l’abbiamo compreso, e saprete come comportarvi.

Egli disse, e riportiamo le sue parole per futura memoria: «Il mio spirito non durerà per sempre e non condividerò più i miei liquidi con l’uomo, perché non è che carne e la sua vita sarà di centoventi anni».

Siamo certi che una volta lette le parole che vi chiediamo di custodire, potrete comprendere la ragione per la quale vi rechiamo cotanto disturbo.

 

Dato a santa città di Gerusalemme, il diciassettesimo giorno del mese di marzo, nell’anno del nostro Signore 1206.

 

Bonifacio degli Aleramici

 

Poggi sistemò il rotolo sul tavolo. Trascorsero alcuni attimi in cui rimase in silenzio a contemplare la fiamma del lume che danzava al ritmo degli spifferi dalla finestra. Gli unici rumori furono i fruscii della sua veste. «Mille anni…», mormorò, incredulo. Subito dopo alzò lo sguardo e si rivolse al templare. «Avete con voi gli scritti?».

Lanfranco, che era ancora in piedi accanto alla porta, mostrò senza dire nulla le tre borse di pelle che aveva appoggiato sul pavimento.

«Cosa sapete del contenuto?»

«Durante l’assedio di Nauplia, nel Peloponneso, giunse un messaggio dalla Terra Santa», cominciò il cavaliere. «Chi lo aveva vergato era a conoscenza del fatto che il marchese fosse alla ricerca di una persona…».

«Continuate… senza timore!», lo incitò Poggi.

«Riferì che c’era una grotta, lontano, ai piedi di alcuni monti a diversi giorni di cammino da Costantinopoli. In quel luogo, forse, c’era l’uomo che cercava il marchese…».

«Il Profeta». L’anziano si sistemò sulla sedia e attese che il cavaliere proseguisse.

«Il marchese abbandonò il campo di battaglia e raggiunse la flotta ancorata a Corfù. Da lì si diresse verso la Terra Santa e poi si mosse verso est».

«E lo trovò… il Profeta, intendo?».

Lanfranco indugiò per qualche istante, ma poi annuì. «E non solo…», concluse mostrando i suoi borsoni.

Poggi spostò lo sguardo dalla lettera di Bonifacio al messaggero che gliel’aveva recata. «Vi ringrazio messere, potete andare… E lasciate pure qui ciò che vi ha affidato il marchese».