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Base di ricerca Sito a, Nord dell’Iran. Nello stesso istante.
-60:00:05 alla deadline.
La porta scorrevole si aprì in uno sbuffo di vapore. La paratia da cinquanta tonnellate si ripiegò su se stessa, lasciando fuoriuscire una folata di aria fresca e rarefatta.
L’atmosfera, all’interno del Giardino, era governata da dodici server per il controllo ambientale. Temperatura, umidità, quantità di luce, e perfino tipologie di insetti e microrganismi ammessi erano rigidamente verificati. Per tale ragione, Herman Van Buuren si sistemò sul viso una mascherina protettiva prima di entrare.
Ogni volta che metteva piede in quell’immenso spazio colmo di piante e fiori, ampio come tre campi di calcio e alto come una cattedrale, aveva sempre la stessa impressione: gli mancava il respiro. E non era solo colpa dell’aria con poco ossigeno…
Fece alcuni passi alla sua sinistra, seguendo il cartello ANGIOSPERME. Zoppicava. Aveva un’ingombrante medicazione al braccio destro e una benda sulla fronte. Nel complesso, però, poteva dire di essersela cavata bene, visto che la Toyota era andata distrutta nell’incidente.
Era rientrato nella base, a pochi chilometri dal confine con l’Armenia, dopo un’ora di auto attraverso le paludi del delta dell’Adji Chay. Sistemata Stella, che era stata sedata e ricollegata alla siringa temporizzata, si era poi diretto nella Sezione 1, comunemente chiamata Serra.
Camminò per alcuni metri lungo un viale costeggiato da alti filari dalle foglie rosa e si fermò davanti ad alcuni alberi da frutta. La luce che filtrava dalla copertura, realizzata in una speciale lega di magnesio, era tenue. Sulla volta, però, erano posizionate lampade circolari dall’illuminazione giallognola che gli permisero di distinguere i primi fiori.
Si avvicinò e prese tra le dita un piccolo bocciolo bianco. Quella che aveva davanti era una variante del ciliegio, molto più piccolo del normale ma in grado di produrre migliaia di frutti.
«Sapevo di trovarti qui». Una voce femminile lo strappò dai suoi pensieri.
Lo scienziato si voltò di scatto e sospirò. «Sembra tutto ok. Il terremoto non ha fatto danni…».
Lei annuì. Era la stessa donna che l’aveva atteso all’aeroporto militare alcune ore prima, ma adesso indossava un elegante tailleur scuro, una camicetta avorio attillata e delle ballerine. Senza il velo, i capelli lisci e neri le arrivavano a metà schiena, legati con un fermaglio d’oro. La mascherina protettiva metteva in risalto i lineamenti del viso, solo parzialmente orientali.
Si chiamava Xiaochen Zhao ed era una delle donne più influenti della NDRC, la Commissione Nazionale per lo Sviluppo e le Riforme cinese.
Era nata a Madrid trentacinque anni prima, da madre spagnola e padre cinese. Gestiva per conto del governo una fitta rete di società che operavano dall’industria pesante a quella farmaceutica, dalle armi ai beni di consumo.
Ma era una donna venuta dal nulla. A sei anni si era trasferita con i genitori a Shanghai e aveva vissuto in un sobborgo affollato e inquinato. Per pagarsi gli studi aveva trovato un’occupazione in fabbrica e lì era venuta a contatto con i vertici del partito comunista.
Giovanissima, era stata avvicinata dall’allora ministro della Scienza e della Tecnologia, in visita nell’immenso complesso industriale dove lavorava. Grazie al suo bell’aspetto e al fascino esotico era diventata la sua amante.
Trasferitasi a Pechino, aveva poi saputo utilizzare quel contatto per incontrare e conoscere i politici più influenti della nomenclatura. Nel frattempo si era laureata e aveva coltivato l’amore, ereditato dalla madre, per la cultura, l’arte e la religione. Tutte qualità che, insieme alla sua sete di potere e alle nuove amicizie importanti, erano state determinanti per entrare nella NDRC ed essere messa a capo del progetto GenARTIF.
«Te l’avevo detto. Questa struttura è antisismica. Proteggiamo i nostri investimenti!». Xia sorrise. Si sistemò dietro l’orecchio una ciocca di capelli sfuggiti dalla coda di cavallo e poi sfiorò la spalla di Herman. «Quanto pensi che occorrerà per la nuova miscela?»
«È pronta!», sorrise lui. «Abbiamo già cominciato a somministrarla alle ultime cavie».
«Stella Rosati?».
Herman annuì. «Anche lei, sì».
«Come sta? Quando l’hanno ripescata dal fiume era in ipotermia».
«Sta bene. Durante la fuga si è strappata il catetere. Abbiamo perso alcuni minuti di countdown ma abbiamo tarato nuovamente la siringa».
«La nucleasi deve essere somministrata in settantadue ore esatte, né un minuto di più né uno di meno», concordò la donna. Poi sorrise e fece per andare. «C’è un’ultima cosa. Nel villaggio. Cominciano a circolare delle voci su quello che facciamo qui».
Van Buuren accarezzò il fiore del ciliegio e non disse nulla.