43
Gerusalemme, 24 ottobre. Ora locale 10:45.
-36:14:41 alla deadline
Come ogni venerdì mattina Yuval Shalom si era alzato all’alba. Da quando aveva lasciato il suo lavoro all’IIBR, un’agenzia governativa, era diventato un ebreo osservante e ci teneva che il riposo dello shabbat fosse rispettato. A partire dal tramonto e per tutto il giorno successivo non avrebbe potuto utilizzare il cellulare, accendere la luce o la televisione, usare l’auto o qualsiasi tecnologia. Ovviamente, non avrebbe potuto neppure lavorare al bed and breakfast Moriah: un piccolo hotel nel cuore della Città vecchia che aveva acquistato con la buonuscita da poco più di un anno.
Essendo una zona turistica, l’albergo però era aperto anche nei giorni di festa, e così Yuval aveva dovuto assumere un dipendente. L’ultimo in ordine di tempo era un giovanotto cristiano di nome Joseph. Non era un ragazzo particolarmente sveglio e una volta aveva perfino sbagliato a riconsegnare i passaporti agli ospiti, che poi erano stati bloccati all’aeroporto. Per evitare problemi di quel tipo, il titolare controllava sempre tutti i documenti e cercava di restituirli personalmente entro il venerdì sera.
Quel giorno era arrivata una comitiva di turisti provenienti dall’Italia che occupavano sette camere. Se considerava anche la coppia di svizzeri giunta quella notte, poteva dire di essere al completo. Per essere alla vigilia dello shabbat aveva un sacco di passaporti da registrare…
Scostò dal bancone un plico di giornali appena lasciati dal postino e si mise al lavoro.
Verificò una decina di documenti, per la maggior parte di coppie cinquantenni. Alcune avevano figli a seguito. Non i due svizzeri. Inserì nel computer i loro nomi: Tobias Sutter e Beatrice Bernasconi, residenti a Melide in Ticino, e infine appoggiò i passaporti vicino agli altri, accanto al plico di giornali.
E in quell’istante rimase folgorato.
Yuval aveva l’abitudine di far trovare ai suoi ospiti, nelle camere, un giornale del loro Paese. Era una bella abitudine che, pensava, avrebbe potuto far fare il salto di categoria al suo B&B. Quella mattina, così, gli avevano consegnato un «Corriere del Ticino» e alcune copie del «Corriere della Sera» e della «Repubblica».
Proprio su quest’ultimo quotidiano, in prima pagina, c’erano due fotografie molto nitide: un uomo e una donna. Lei, sorridente, indossava un berretto da militare. Lui era invece ritratto da più lontano.
Però erano loro: Tobias Sutter e Beatrice Bernasconi. I nomi sembravano non corrispondere, ma i volti sì. Controllò di nuovo sui passaporti: di sicuro la donna era lei. Qualche dubbio in più l’aveva sul maschio, anche se si convinse di avere ragione.
Si voltò di scatto per verificare se i due ospiti fossero in camera. Non c’erano: la chiave numero 9 era appesa alla bacheca.
Yuval provò a leggere l’articolo del giornale. Non parlava bene l’italiano, ma qualche parola riusciva ad afferrarla: “terrorismo” o “ricercati”, per esempio.
Afferrò la cornetta del telefono proprio nel momento in cui la campanella sopra la porta d’ingresso tintinnò.
Il proprietario dell’hotel deglutì: i due ricercati erano appena entrati. Erano vestiti in modo sportivo e la ragazza aveva un vistoso cerotto sul sopracciglio, ma sembravano tranquilli.
«Buongiorno», gli disse Henkel in ebraico, avvicinandosi al mobile dove erano appese le chiavi.
Yuval riagganciò la cornetta. Provò a sorridere, tuttavia non riuscì a mascherare l’espressione spaventata che gli funestava il volto. Era per evitare situazioni di quel tipo che aveva lasciato il suo precedente lavoro governativo. «Siete mattutini, vedo…», riuscì a dire, cercando di sembrare cordiale.
Henkel annuì e, sempre in ebraico, gli disse che erano usciti presto per fare una passeggiata.
Parlava molto bene la lingua perché quando era al servizio dell’STB cecoslovacco aveva passato tre anni a Tel Aviv. E quella circostanza gli era stata particolarmente utile proprio due ore prima, quando erano rimasti intrappolati all’interno del furgone.
Henkel, che all’arrivo della polizia si trovava nella parte posteriore, era riuscito a infilarsi un giubbotto con la scritta FedEx. Poi, con un filo di voce aveva sfoderato il suo ebraico. «Hatzilu!», aveva sussurrato. «Aiuto».
I poliziotti li avevano liberati e lui gli aveva raccontato di essere stato buttato fuori strada da un “pirata”. Aveva assunto un’espressione contrita e gesticolando con il piglio di un attore di Broadway aveva indicato la direzione presa dal Toro. Dopo aver annotato la descrizione dell’Hummer, una delle due pattuglie si era subito lanciata all’inseguimento.
L’altra auto della polizia era invece rimasta con loro e aveva chiamato un’ambulanza, che era arrivata in pochi minuti. Nessuno, per fortuna, gli aveva chiesto i documenti, che loro avevano lasciato in hotel: gli agenti erano sembrati molto più preoccupati della ferita alla testa di Viola, che aveva assunto un’espressione terrorizzata. Non aveva parlato – anche perché non conosceva una parola d’ebraico – e aveva tenuto lo sguardo fisso e perso nel vuoto.
«Adesso vi portano in ospedale», li avevano rassicurati quando Henkel e Viola erano stati caricati sull’ambulanza. «Noi vi faremo strada».
E così il mezzo si era immesso nel traffico mattutino.
«Adesso fate i bravi!», aveva ordinato poi, all’improvviso, Henkel ai paramedici. Li aveva minacciati con un paio di forbici prese dal carrello dei medicinali e il suo viso si era fatto cupo. Dopo averli immobilizzati, si era seduto accanto all’autista e gli aveva impartito un semplice ordine.
Pochi minuti più tardi, sempre seguendo l’auto della polizia, il piccolo convoglio si era immesso in Azza Street e l’autista aveva eseguito le istruzioni: dopo un semaforo, senza dare il minimo preavviso, l’ambulanza aveva voltato a sinistra, lasciando l’auto di scorta sull’altra strada. Aveva accelerato lungo Binyamin mi-Tudela Street e si era fermata sotto alcune palme verdeggianti.
Henkel e Viola erano scesi al volo e subito dopo erano saliti su un autobus che sopraggiungeva. In seguito avevano raggiunto la Città vecchia e attraverso la porta di Giaffa erano tornati a piedi all’hotel.
«Be’, se non avete fatto colazione, la sala è aperta ancora per un quarto d’ora», esclamò il proprietario, teso ma sforzandosi di sembrare professionale.
Henkel annuì, un pallido sorriso sul volto.
Sapeva che non sarebbero potuti rimanere molto in quell’albergo, soprattutto perché adesso certamente la polizia li stava cercando. Certo, l’ambulanza li aveva lasciati lontano dal quartiere ebraico, ma ciò nonostante era necessario elaborare un piano. Anche perché la deadline si avvicinava…
Afferrò la chiave numero 9 e si avviò in compagnia di Viola al piano superiore.
Due minuti più tardi Yuval Shalom era nel vicolo popolato di commercianti e animato di passanti. Voltò il capo verso l’ingresso del B&B, nascosto da due oleandri fioriti, e poi estrasse il cellulare.
«Pronto, polizia…».