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Base di ricerca Sito A, Nord dell’Iran. 00:15.

-00:14:12 alla deadline.

 

L’idea di prendere in ostaggio la direttrice della base era venuta a Massoud alcune ore prima. Per quella ragione aveva pagato a peso d’oro, da una delle guardie, la mappa del sito con l’indicazione esatta di quale fosse il suo alloggio. Poi quel tizio aveva preteso più soldi per farli entrare dall’ingresso secondario e lui aveva avuto il colpo di fortuna di incontrare Henkel e compagni…

Con lo spyder imbottito di C4 avevano fatto esplodere l’entrata ovest e, sfruttando il diversivo, si erano diretti all’ingresso B. L’avevano sfondato con il pick-up e avevano neutralizzato gli unici due uomini di guardia. E adesso la cinese era lì davanti: senza trucco sembrava più vecchia, ma la sua espressione era decisa come la prima volta in cui aveva incontrato Massoud.

«Posso darle quello che vuole, signor Dinmohammadi», grugnì lei, nel suo inglese dalla pronuncia orientale, strizzando gli occhi nella penombra.

Indietreggiò e, strisciando i piedi sul parquet di rovere, raggiunse il centro della stanza. Dietro la guida entrarono due uomini e due donne. La mora teneva in braccio una bambina con gli occhi chiusi.

«Adesso ci accompagnerà nei laboratori e farà in modo che mia figlia guarisca!», le intimò l’iraniano.

Nel frattempo Viola adagiò Anahita sulla poltrona di pelle e si avvicinò al grande tavolo. «Guarda qui», fece notare a Henkel, che invece fissava il monitor a parete, su cui campeggiava l’immagine di Stella.

«Che cosa?»

«La lettera di Bonifacio degli Aleramici». Sulla superficie laccata, insieme ad alcune carte, era poggiato in bella mostra l’originale della lettera datata 1206. Nella parte in basso, in prossimità della scritta che non si leggeva bene nella copia vista a Firenze, c’era un grosso foro di forma rettangolare.

Henkel si avvicinò e lanciò un’occhiata fugace. «Avremo tempo per le spiegazioni», disse, puntando l’MP7 verso la cinese. «Adesso però la priorità è salvare Stella e la bambina».

«Stella?», chiese Xiaochen, con finta sorpresa. Si spostò ancora di qualche passo per cercare di raggiungere il tavolo. «La cavia 45 non ha alcun bisogno di essere salvata!», aggiunse, con il solo fine di guadagnare tempo prezioso. La sicurezza le sarebbe venuta in aiuto nel giro di pochi minuti. Almeno così si augurava.

«Cosa intende?»

«Le abbiamo regalato molti anni di vita…». La donna si interruppe a metà della frase. Sapeva che le parole che stava per pronunciare sarebbero state di grande effetto, e voleva tutta l’attenzione che meritavano: «Se le cose andranno come immagino, la sua vita andrà ben oltre i centoventi anni».

Centoventi anni.

Henkel deglutì. Un brivido gli percorse la schiena.

«“Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è solo carne e la sua vita sarà di centoventi anni”». Elisabeth pronunciò a memoria un passaggio del Vecchio Testamento.

«Vedo che conosce la Genesi», replicò la cinese, con calma. «Sapete cosa fanno i giapponesi quando riparano un vaso rotto? Riempiono le crepe con l’oro: credono che quando qualcosa ha una sua storia e ha subito una ferita, questo qualcosa diventa migliore e quindi vada preservato».

«Non abbiamo tempo da perdere», tuonò Henkel.

«Aspetta, Andreas». Elisabeth si avvicinò all’agente dell’SSV e gli sfiorò il braccio. Era la prima volta che usava il suo vero nome e non il soprannome che gli aveva affibbiato, e forse fu proprio quello a convincerlo. «La crepa è l’invecchiamento delle persone?», domandò.

La cinese sorrise. Nella penombra un lampo d’orgoglio le attraversò il viso. «È un vero peccato che gli uomini debbano vivere settanta o ottant’anni al massimo. Si rischia di perdere nell’oblio la loro storia. Non potremmo mettere dell’oro nelle crepe, nella vecchiaia?». Xiaochen si appoggiò alla scrivania e sfiorò con il palmo bianco della mano la lettera di Bonifacio. «Non sarebbe meglio vivere molto più a lungo? Magari centoventi anni come dice la Genesi… o meglio ancora quattrocento, seicento o addirittura mille anni?»

«Come i Patriarchi dell’Antico Testamento…», precisò Elisabeth. «Matusalemme visse novecentosessantanove anni, Noè novecentocinquanta, Adamo novecentotrenta».

«A cosa vi servivano i rotoli?», la interrogò Henkel, in modo più spontaneo di quanto lui stesso avrebbe voluto.

«Pensavo che ormai vi fosse chiaro…». La direttrice della base portò le mani lungo i fianchi e sfiorò un cassetto del tavolo.

«L’albero della vita!», intervenne ancora Elisabeth. «Hanno costruito questa struttura nel luogo esatto in cui millenni fa sorgeva il giardino dell’Eden».

«Stanno incrociando in laboratorio specie vegetali», aggiunse Viola, raccontando a Henkel quanto si erano detti in auto.

«Se pensiamo che in ogni leggenda ci sia un fondo di verità, dobbiamo credere che Matusalemme e i suoi avi siano esistiti realmente…». Xiaochen si fermò per un istante. La luce della lampada rischiarò le sue forme appena accennate. «Non possiamo sapere se ciò che dice la Genesi sia vero… però una cosa la sappiamo: la localizzazione esatta del giardino dell’Eden, ovvero il luogo utilizzato dalle Scritture per ambientare la leggendaria storia di Adamo ed Eva».

«È proprio qui, giusto?».

Lei annuì, convinta. «E questo luogo è decisamente importante… Fino a quando Dio non si pentì di aver creato l’uomo e decise di sterminarlo, i Patriarchi vivevano quasi mille anni. Poi accadde qualcosa. Il passo dell’Antico Testamento che la ragazza ha recitato, narra che il Signore smise di infondere loro il suo spirito. La conseguenza fu che l’età degli “Adam” passò dai mille anni di Matusalemme fino ai centosettantacinque di Abramo e i centoventi di Mosè».

«E cosa hanno a che vedere i vostri affari con quanto raccontato dalla Bibbia?».

La cinese scrutò fuori dalla finestra. Non le interessava raccontare le basi del suo esperimento, nato dagli studi cinesi sull’alimentazione. Più parlavano, però, più era probabile che qualcuno arrivasse ad aiutarla. «Le traduzioni dei testi biblici sono colme di errori e imprecisioni», disse. «Secondo alcuni, il passaggio biblico di Genesi 6,3 avrebbe una traduzione molto diversa!».

«Cosa ha a che fare questo con quella serra?», insistette di nuovo Viola, indicando l’enorme edificio che risplendeva sotto la luna, fuori dalla finestra.

«Dio non smise di dare il suo spirito agli uomini». La cinese proseguì a denti stretti. «Smise di dare loro il frutto dell’albero della vita».

«Gli Elohìm smisero di dare i frutti del loro giardino sperimentale agli uomini e la loro esistenza si accorciò a centoventi anni», sintetizzò Elisabeth. «Voi state cercando di ricreare quel frutto. E lo state facendo nel luogo esatto in cui quel frutto cresceva!».

«Alcuni dei vostri preziosi rotoli risalgono a tremilasettecento anni fa», spiegò Xiaochen. «Come dice la lettera di Bonifacio, questi papiri furono custoditi in un luogo tra due fiumi, da un uomo venerato come un profeta vissuto mille anni. Le nostre indagini paleobotaniche confermano che il luogo è questo… E se i rotoli sono stati custoditi qui, i pollini dell’albero della vita sono penetrati nelle fibre del papiro».

«Cosa volete fare?», esclamò Viola, esterrefatta. «Volete clonarlo, partendo dal polline?»

«Il procedimento è piuttosto complesso, a dire il vero…». La cinese fece una pausa, raccogliendo le idee. «Dopo così tanto tempo non è possibile ricostruire la pianta intera da ciò che resta nei papiri, perché le sequenze di DNA sono incomplete. Ciò che facciamo, invece, è estrarre il DNA fossile contenuto in alcuni pollini e reinnestare questi frammenti nelle catene molecolari di una pianta attuale affine. Ricostruiremo così un genoma che si avvicina quanto più possibile a quello della specie d’origine».

«La teoria del caos!», commentò Elisabeth, proprio mentre la piccola Anahita riprendeva conoscenza. «State creando una specie di OGM alla Jurassic Park insomma…».

«Prima diceva che Stella avrebbe vissuto centoventi anni», intervenne Henkel, indicando l’immagine della sua fidanzata sullo schermo a parete. «Significa che ci siete riusciti? Nei papiri avete trovato tracce dell’albero della vita?»

«Siamo sulla buona strada. I suoi telomeri, le piccole porzioni di DNA che si trovano al termine di ogni cromosoma, si stanno replicando. Come sapete, la funzione dei telomeri è quella di impedire al DNA di sfilacciarsi. In pratica, agiscono come le protezioni alla fine dei lacci delle scarpe…».

«Vada avanti».

«Normalmente i telomeri non si autoreplicano e si accorciano costantemente a ogni duplicazione delle cellule. Quando si esauriscono, la cellula muore e secondo alcuni questa è la causa principale dell’invecchiamento umano».

«E il frutto dell’albero della vita permette che ciò non accada?», si informò Viola, più stupita che preoccupata.

«Diciamo di sì… anche se in realtà si limita ad attivare una funzione già presente nella cellula, la cosiddetta telomerasi», le spiegò la cinese. Se non fosse stato per le armi puntate verso di lei, sarebbe potuto sembrare un normale scambio di opinioni tra scienziati. «La cosa più stupefacente è che la funzione di replicazione esiste già in natura, ma per ragioni ignote non è attiva nelle nostre cellule, almeno non in tutte. È come un interruttore che deve essere “attivato” dalla sostanza giusta… e noi l’abbiamo trovata. A differenza dei cosiddetti attivatori specifici, sostanze abbastanza comuni estratte da qualche pianta, la nostra miscela sembra realmente efficace. Quando si dice che mangiando frutta e verdura si vive di più, si dice la verità! Soprattutto se il frutto è quello giusto».

«Perché l’avete avvelenata?». Henkel digrignò i denti, stringendo la mitraglietta tra le mani.

«Non l’abbiamo avvelenata…», si risentì lei, con un’espressione di finta indignazione. Si voltò appena, lanciando un’occhiataccia all’arma che la teneva sotto tiro. «Ci siamo limitati ad accelerare il suo invecchiamento distruggendo i telomeri. Dovevamo capire se il suo organismo riusciva a rigenerarli». Fece un sorriso glaciale e proseguì: «Ogni scoperta richiede un prezzo da pagare… Non potevamo certo aspettare che le cavie invecchiassero naturalmente!».

In quel momento un suono persistente, come di un gigantesco calabrone, attirò l’attenzione di tutti.

L’agente Dawe si precipitò alla finestra e prima degli altri capì: nella notte illuminata dalla luna si vedevano due fasci di luce proiettati dal cielo. «C’è un problema!».

Henkel sbirciò in alto, perdendo per un istante di vista la cinese. Lei si mosse di pochi passi verso la sua poltrona.

«Sono Black Hawk», aggiunse Dawe. «I miei amici hanno avuto il diversivo che volevano!».

Contemporaneamente si udirono alcuni spari di mitra. Dalla loro posizione soprelevata, in prossimità della pista di atterraggio, Henkel e Dawe videro movimento nei pressi della torre di controllo.

«Dobbiamo sbrigarci». Henkel si mise la pistola mitragliatrice a tracolla e si spostò verso l’uscita.

Non passò un secondo che un lampo abbagliante rischiarò il cielo. Sembrava che qualcosa fosse stato sparato dalla pista di atterraggio e avesse colpito uno dei due elicotteri. Il Black Hawk, con la coda in fiamme, cominciò a roteare.

«Non muovetevi o la bambina muore con un po’ di anticipo», proclamò Xiaochen Zhao. Aveva Anahita in braccio e una piccola Colt in mano. Doveva averla estratta dal cassetto del tavolo, ora aperto.

«Ana… non ti muovere», la supplicò il padre, le braccia aperte come per recitare una preghiera.

La bimba aveva un’espressione di terrore dipinta negli occhietti azzurri. Sembrò lanciare uno sguardo di supplica a Henkel, che aveva evidentemente identificato come il “capo”. Sperava potesse aiutare suo padre.

«Di là», ingiunse la cinese. «Mettete giù le armi ed entrate in quella stanza…».

Non riuscì a finire la frase che Massoud si buttò verso la figlia, nel disperato tentativo di strapparla dalle braccia della direttrice. Ma non fece in tempo neppure a sfiorarla. Un colpo di proiettile gli perforò lo stomaco e lo costrinse a inginocchiarsi.

«Il prossimo è per voi», dichiarò Xiaochen, gesticolando con la pistola. «Muovetevi a entrare là dentro».

Nessuno si mosse e Henkel fulminò la cinese con un’occhiata furibonda.

Xiaochen digrignò i denti, sostenne il suo sguardo e poi tornò a fissare Massoud, inginocchiato davanti a lei. Emise un rantolo agghiacciante e fece di nuovo fuoco. Come se fosse un’esecuzione in piena regola, colpì la guida direttamente tra gli occhi.

A quel punto Henkel e Dawe, esterrefatti, appoggiarono le mitragliette per terra e alzarono le mani. «Ok, non fare del male alla bambina», supplicò il primo, in un tono rassicurante che anche Ana potesse percepire. Poi, insieme agli altri tre, entrò nella stanza attigua.

Xiaochen si precipitò alla porta e la chiuse a chiave. Mollò Ana sul pavimento come uno straccio vecchio e si diresse verso l’hangar 4.