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Firenze, 22 ottobre. 09:45.

 

Le fiamme divamparono con una velocità sorprendente.

Mentre il fumo riempiva ogni angolo della sala d’aste, il panico si impadronì del pubblico seduto di fronte al pulpito del banditore.

«Restate calmi», ripeté ostinata la voce di una donna. Ma il suo tono tremolante lasciava intuire che neppure lei aveva la minima idea di ciò che era accaduto.

E infatti una nuova esplosione, molto più potente della precedente, scosse l’antico palazzo progettato da Luca Beltrami. La parete est, quella che si affacciava su piazza della Signoria, crollò come se fosse stata di cartapesta. Per effetto dello spostamento d’aria i lucernari del soffitto andarono in frantumi e una pioggia di vetri si riversò sul pubblico.

Chi non rimase schiacciato dai detriti cercò di spostarsi, per guadagnare un luogo più sicuro. Alcuni corsero verso l’uscita principale, ma era sbarrata da un muro di fiamme alte come l’intero edificio. Chi andò dalla parte opposta si trovò invece di fronte cumuli di calcinacci che avevano ostruito ogni via di fuga.

«Una bomba», urlò qualcuno. «C’è stato un attentato», gli fecero eco altre voci, sovrapposte e sempre più impaurite.

Ma non era finita: un istante dopo si udì il rombo di un motore diesel e un potente fuoristrada emerse tra la polvere. Centrò in pieno alcune librerie, che si ribaltarono, e andò a fermarsi esattamente in mezzo al locale.

Il pubblico, almeno quello che era sistemato nelle file posteriori, riuscì a spostarsi in tempo. Solo un capannello di quattro o cinque teste era rimasto intrappolato tra il fuoco e le macerie: erano i partecipanti all’asta per l’unico lotto a offerta segreta, e fino a pochi attimi prima erano seduti gli uni accanto agli altri in prima fila.

«Dobbiamo andare», ammonì un uomo sui quaranta. Aveva il viso, la barba castana e gli occhiali completamente ricoperti di polvere. «Per di qua!», incalzò ancora, mentre la coltre di fumo si faceva sempre più spessa.

Quando, il giorno precedente, aveva lasciato il convento di San Domenico a Bologna, a tutto avrebbe pensato tranne che trovarsi nel bel mezzo di un’apocalisse in terra.

Si chiamava Lamberto Zonca, era un frate dell’ordine dei Predicatori e aveva trascorso la vita a studiare le Sacre Scritture. Insieme agli altri studiosi, che gli stavano accanto impauriti in quel momento, era lì per un particolare incanto organizzato dalla casa d’aste Paolini di Firenze.

«La scala. Dobbiamo raggiungerla». Il religioso si pulì con l’avambraccio le lenti degli occhiali e gesticolò con le mani. «Di là».

Gli altri si guardarono attorno spaesati. Non sembrava fossero in grado di offrire una via d’uscita alternativa e infatti, quando Zonca si mosse, lo seguirono. Percorsero la navata est della sala e si inerpicarono su una scala a chiocciola di legno che incredibilmente non sembrava danneggiata.

Nel frattempo, dalla Land Rover blindata erano scesi quattro uomini con tuta mimetica, passamontagna e AK-47 stretto in pugno.

«Sessanta secondi. Lotto 302, piano interrato», fece il primo, anfibi al ginocchio, jacket tattico e giubbetto antiproiettile. Poi si mosse in direzione del palco. Dietro di lui le fiamme, sempre più aggressive, erano diventate di un colore verdastro. Ma l’uomo non si lasciò intimorire: con una calma serafica esaminò un faldone di cuoio, all’interno del quale erano stipate alcune buste. Lo afferrò con i guanti in kevlar e tornò verso l’auto.

Contemporaneamente, gli altri tre militari erano scesi nel locale interrato. Sapevano che le opere di maggior valore erano custodite un piano sotto il livello stradale, in quello che fino agli anni Cinquanta era stato il caveau della Banca Toscana.

Ricomparvero, con un grosso baule d’alluminio, proprio nell’istante in cui frate Zonca e gli altri imboccarono la scala a chiocciola.

Senza curarsi di quanto stava accadendo attorno a loro, lo caricarono sulla Land Rover e misero in moto. Il loro collega salì dal lato del passeggero e l’auto, con uno stridio di pneumatici, tornò in retromarcia verso Palazzo Vecchio.

Pochi attimi più tardi, un intenso odore di gas si diffuse in quello che rimaneva della grande sala e una nuova esplosione scosse l’edificio fin nelle fondamenta. Una voragine si aprì nel pavimento.

La scala di legno, sulla quale stava ancora salendo Zonca, ondeggiò pesantemente. Il frate lanciò un’occhiata agli altri, in alto: erano quasi arrivati in cima, ma lui era ancora a metà della salita.

Non passò un secondo che un nuovo scossone fece vibrare il supporto di quercia al quale erano affrancati i gradini. Il legno cominciò a cedere e si curvò su se stesso.

Zonca riuscì a salire ancora per un brevissimo tratto, ma improvvisamente sentì l’appoggio mancargli da sotto i sandali.

La scala si staccò dalla parete e come un elastico sprofondò verso la voragine lasciata dall’esplosione di gas. Il frate fu sbalzato fuori e provò ad aggrapparsi a uno dei supporti.

Ma non ci riuscì. Proprio come le schegge di legno che piovevano dal soffitto, fu catapultato inesorabilmente nel vuoto.