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Valle del Meidan, 3700 anni prima…

 

La primavera era arrivata presto.

L’aria era satura dei pollini delle palme da dattero e una spianata di fiori di campo aveva ricoperto il fianco della montagna. Guardando in alto si scorgeva l’imponente muro che delimitava il giardino e, oltre, il grande passo orientale da cui si accedeva alla valle.

Melchisedec, avvolto in una lunga veste e con il capo coperto, si appoggiò malfermo al suo bastone e si avviò su per la scarpata. La fronte bassa, il mento sporgente e il viso grinzoso gli conferivano un aspetto poco gradevole, ma erano gli occhi a renderlo speciale. Di un colore a metà tra l’azzurro e il grigio, emanavano una luce inconfondibile, del tutto simile alle pupille di un gatto nella notte.

Come ogni mattina era sceso fino al letto del fiume per riempire d’acqua due bisacce di muflone e fare provviste di frutta. Viveva in quel luogo recintato e protetto fin da quando, a quaranta giorni di vita, era stato strappato alle braccia di suo padre Nir. Il suo Elohìm lo aveva portato in quella valle e lo aveva preservato dalla grande alluvione.

Da quel luogo, colmo di frutti e fiori di ogni tipo, aveva potuto assistere alla fine dei suoi simili. Anche Methuselah, il padre di suo nonno Lamech, era morto pochi giorni prima del diluvio, mentre suo zio Noè aveva invece trovato riparo su un monte poco distante. Da lì aveva intrapreso la strada riservatagli dai signori dei cieli… una strada molto diversa da quella che invece aveva imboccato lui.

Da quegli eventi erano trascorse cinquecento primavere e Melchisedec ormai si sentiva vecchio e stanco. Aveva potuto vedere i suoi discendenti fino alla nona generazione. Quelli che erano andati via dal giardino, per seguire la loro strada, erano tornati a essere polvere, mentre lui e i pochi che gli erano rimasti accanto erano ancora lì.

Come i suoi antenati, come il suo trisavolo Enoch, aveva camminato con gli dèi e ne aveva seguito i dettami. E ancora continuava a farlo… anche se adesso era giunto il momento di fermarsi.

«Padre». Un giovane dai capelli fulvi, i profondi occhi nocciola e il naso schiacciato, gli si fece incontro. «Lasciate che vi aiuti».

Afferrò le bisacce e fece sedere il padre all’ombra di una palma. «Vi sentite bene?»

«Figlio mio…». Melchisedec emise un suono gutturale che poco sembrava avere a che fare con la lingua aramaica parlata dal ragazzo. «Devo mostrarti qualcosa».

Il giovane, il secondogenito che l’anziano aveva avuto con l’ultima moglie, parve sorpreso. «Che cosa, padre?».

Il vecchio scrutò verso il sole, che in quel momento era alto nel cielo, e provò ad alzarsi. Ci riuscì, aiutato dal ragazzo, dopo aver bevuto un sorso d’acqua da una delle bisacce. «Vieni con me», gli disse, gli occhi lucidi.

Camminarono per alcuni istanti, tra filari di alberi di frutta che avrebbero potuto sfamare l’intero Elam, e raggiunsero una grotta sul fianco della montagna. Melchisedec accese una torcia e appoggiando il suo peso al bastone scese lentamente. Quando si fermò, davanti a lui si aprì una grande camera di forma circolare. Ciuffi di stalattiti pendevano dal soffitto e sulle pareti si vedevano alcuni alveoli. All’interno del primo c’era un tavolo, uno sgabello e alcuni rotoli di papiro.

«Conosci la storia della nostra famiglia», sussurrò il vecchio, sbattendo le palpebre per abituarsi alla penombra. «Quella che ti raccontavo da bambino».

Il giovane annuì, senza comprendere il motivo per il quale si trovava lì.

«Eccola». Melchisedec indicò un centinaio di papiri, accatastati ordinatamente lungo la parete. «È contenuta in quei testi».

«Li avete scritti voi, padre?».

L’uomo annuì convinto. «Per volere del nostro Elohìm. Affinché la storia degli uomini, dei nostri avi Adamo, Set ed Enos non si perda nei secoli».

Il giovane si avvicinò ed esaminò meglio, alla luce della torcia, i papiri accatastati. «Perché me li state mostrando, padre?»

«Perché i miei giorni sono arrivati alla fine».

«Non scherzate, padre», lo rimbrottò il ragazzo, scuotendo il capo.

Melchisedec alzò la mano callosa, come per fermare un gregge di capre, e proseguì: «Tu sei come me, figlio mio, che ho offerto pane e vino ai nostri creatori. Non possiamo sapere quante primavere ti riserveranno, ma il tuo compito, e quello dei tuoi discendenti, è di continuare il mio lavoro: raccontare la storia che è già stata scritta e soprattutto quella che ancora deve esserlo».

«E fino a quando, padre?».

Melchisedec alzò il capo lentamente. Avrebbe voluto saper rispondere, ma non era possibile interpretare la volontà dell’Elohìm.

Ciò nonostante suo figlio, e poi i figli dei suoi figli, protetti dalle mura del giardino, fecero ciò che gli dèi avevano chiesto. Fino a che, un giorno, duemilanovecento anni più tardi, Bonifacio degli Aleramici, un nobile proveniente dal Peloponneso, giunse nella grotta.

Gli Elohìm avevano abbandonato da tempo quei luoghi, ma i discendenti di Melchisedec erano ancora lì: avevano continuato a raccontare gli eventi della loro famiglia, a riordinare i rotoli, a sostituire quelli usurati e a copiare quelli più antichi.

In seguito vi fu un saccheggio, come avveniva spesso in tutta la Terra Santa, e delle centinaia di rotoli se ne salvarono soltanto quattordici.

Portati in Vaticano, quei papiri furono nascosti su un’isola a sei giorni di navigazione dalla Britannia. Furono ritrovati ottocento anni più tardi, tremilasettecento anni dopo che la prima parola era stata vergata.