67
Isola di Burano, Venezia. 11:55.
-10:04:24 alla deadline.
La piazza era semideserta. Soffiava un vento gelido che tagliava la pelle e le botteghe a ridosso del pontile stavano chiudendo i battenti.
Henkel, immobile accanto alla statua del musicista Baldassare Galuppi, batté i piedi più volte. Si guardò attorno, mentre un refolo sollevava alcune foglie giallastre. Nonostante le allegre facciate colorate delle case – due o tre piani, gialli, rossi o verdi – una strana atmosfera d’abbandono sembrava permeare quel luogo. Anche perché, verso la laguna, nuvole plumbee e cariche di pioggia avanzavano minacciose.
Osservò il display del suo smartwatch e si convinse di aver fatto bene ad andare su quell’isola.
Poco dopo essere fuggito dalla Cassa di Risparmio di Venezia, mentre camminava con passo spedito verso Rialto, il suo speciale orologio aveva vibrato. Si era fermato di colpo, stringendo a sé il borsone in cui aveva stipato i rotoli e l’aveva osservato: a differenza di come gli era apparso nei giorni precedenti, il dispositivo non mostrava più il conto alla rovescia e i dati biometrici. Adesso c’era invece un puntino nel centro della mappa di Venezia e una bustina pulsante.
Henkel aveva deglutito. Sapeva bene che quell’aggeggio trasmetteva costantemente la sua posizione, tuttavia non credeva potesse anche essere un dispositivo di comunicazione. Fin da quando era stato costretto a immobilizzare Viola nel caveau aveva pianificato le sue mosse successive. Non aveva più il cellulare, tuttavia ricordava molto bene il numero di telefono olandese comparso sul suo telefono all’ospedale di Firenze. Non avendo ricevuto istruzioni precise per la consegna dei rotoli, aveva così pensato di provare a richiamare quel numero. Ma non ce n’era stato bisogno.
Sospirando, aveva sfiorato il display capacitivo dell’orologio e aveva letto la semplice istruzione contenuta nel messaggio: “Burano, ore 12”. Seguivano una serie di numeri, le coordinate di piazza Galuppi. Esattamente dove si trovava in quel momento.
Si voltò prima verso la chiesa e poi verso alcuni negozi di merletti: era tutto chiuso e non c’era anima viva. Il silenzio era irreale. Ebbe l’impressione di trovarsi in uno di quei vicoli del vecchio West, poco prima di un duello.
In quell’istante, uno squillo lo riportò al presente.
Controllò l’orologio: il display, che subito dopo la lettura del messaggio era tornato a mostrare la deadline, non era mutato.
Girò su se stesso, per cercare di capire da dove provenisse il suono e poi identificò la fonte: il vecchio pozzo nel centro della piazza.
Si avvicinò circospetto e sollevò la copertura metallica. All’interno, sistemato sul profilo di marmo che correva poco sotto il bordo, c’era un cellulare che stava trillando insistentemente. Il numero era anonimo.
Lo afferrò d’impeto e rispose. «Pronto?»
«Tic-tac. Tic-tac». Era la solita voce roca che aveva imparato a conoscere. Un brivido gli percorse la schiena: era Herman Van Buuren, il rapitore.
«Ho quello che volete», esordì l’agente dell’SSV in inglese, passando la mano sul borsone che conteneva i papiri. Sapeva che averli portati dietro, nel luogo dell’appuntamento, era un grosso errore. D’altra parte, però, ogni suo movimento era monitorato e quindi, dovunque li avesse eventualmente nascosti, loro lo avrebbero saputo. Certo, aveva pensato di togliersi l’orologio con il quale veniva localizzato, però non lo aveva fatto: era l’unico modo in cui poteva restare in contatto con i rapitori…
«So che li ha, altrimenti non si troverebbe dove invece è…», sibilò l’olandese. «Sia cortese: appoggi la borsa per terra e faccia qualche passo all’indietro».
Henkel non si spostò di un millimetro. «Prima voglio vedere Stella».
«Prima… vogliamo vedere i rotoli!».
Andreas fece una smorfia sprezzante e invece di seguire gli ordini afferrò il manico del borsone. Con un veloce movimento del polso lo fece girare attorno al corpo muscoloso e se lo mise a tracolla. Provò una breve fitta di dolore ma non fece in tempo a rendersene conto. Nello stesso istante, una scheggia di marmo, proveniente dal pozzo, esplose davanti a lui accompagnata da una nuvoletta di polvere.
Si voltò di scatto, sempre tenendo il telefono incollato all’orecchio, e radiografò gli edifici affacciati sulla piazza. Non impiegò molto a individuare, a ore otto, la canna nera di un fucile affacciata a una finestra.
«Il prossimo colpo è per lei», sentenziò Van Buuren.
«Quando potrò rivedere Stella?», gemette Henkel, questa volta più accomodante. Era in trappola e lo sapeva bene, anche se era certo di poter ancora giocarsi la partita.
Dall’altro capo del cellulare ci fu un istante di silenzio. Poi si udì un sospiro. «Io sono un uomo di scienza, caro Andreas. Non sono abituato a questi metodi e le chiedo scusa».
L’agente vaticano non rispose, cercando con gli occhi, casa per casa, la presenza di altri cecchini. Nonostante il freddo era completamente sudato.
«Non sono stato del tutto onesto con lei!», borbottò lo scienziato, con un tono che sembrava realmente rammaricato.
«Stella non verrà?»
«Temo di no… abbiamo ancora bisogno di lei».
In un istante, tutte le sue paure gli si materializzarono davanti. «Credo di meritare una spiegazione».
«Ha ragione…», ammise l’olandese. «Ricorda la sostanza che abbiamo somministrato alla sua fidanzata?».
Nessuna risposta.
«Non si trattava di un veleno, anche se, purtroppo, inevitabilmente provocherà la morte del soggetto…».
Il soggetto.
Henkel deglutì, in attesa di ulteriori dettagli.
«…Si tratta di un particolare enzima: una nucleasi di restrizione che va a caccia di una parte specifica del filamento del DNA di Stella: una parte chiamata telomero».
«Non capisco… avevate detto che interrompendo la somministrazione entro settantadue ore si sarebbe salvata».
«Non è proprio così, purtroppo». Van Buuren ebbe un’incertezza nella voce. «La nostra proteina impiega settantadue ore per fare il suo lavoro, questo è vero… Potremmo interrompere la somministrazione, cosa che però, per amore della scienza, non faremo… In ogni caso i telomeri già distrutti non potrebbero essere comunque ripristinati. La morte, purtroppo, è la conseguenza diretta…».
«Mi avete mentito!», sbottò Henkel. Pur essendo un’eventualità che aveva già preso in considerazione, per un istante fu tentato di scappare verso il pontile e distruggere i rotoli. Ma si sarebbe trattato di una reazione emotiva e non sarebbe stata da lui. Doveva restare calmo, misurare le parole e fare quanto aveva programmato.
«Ok», disse alla fine, accondiscendente. Era necessario prendere tempo per elaborare le informazioni fornitegli dall’olandese. Si sfilò il borsone e lo appoggiò per terra. «Ho fatto quello che avete chiesto. Voi invece non manterrete i patti… perché dovrei accontentarvi?»
«Per esempio, perché il nostro cecchino non sbaglia quasi mai».
L’agente dell’SSV scosse la testa, frustrato. Poi alzò lo sguardo verso la finestra: la canna del fucile di precisione era sempre lì, puntata inesorabilmente verso la sua testa. «Se non era un veleno… tutto quello che avete fatto è stato solo un esperimento, giusto? Perché avete scelto Stella?»
«A causa sua, Andreas… Chi altri avrebbe potuto trovare quei rotoli?».
A causa sua… Quelle parole lo turbarono molto, ma fece di tutto per non lasciare trasparire le sue emozioni. «A cosa vi servono quei dannati papiri?».
Van Buuren non rispose. Sembrava indeciso se proseguire la telefonata oppure togliere semplicemente di mezzo Henkel e portargli via la borsa. Ma era uno scienziato, non un volgare assassino… «Si allontani dai rotoli. Adesso».
Contemporaneamente, un uomo uscì da uno degli edifici e si avviò spedito verso di lui. Non sembrava armato e teneva le mani ben in vista.
Henkel indugiò ancora per un istante, colmo di risentimento ma consapevole di non avere scelta. Alla fine fece quanto gli era stato ordinato: indietreggiò, come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco, e abbandonò il borsone accanto al pozzo. Se voleva sperare di riuscire a salvare Stella doveva prima uscire vivo da quell’incontro… «Perché siete interessati a quei maledetti rotoli?», provò a chiedere ancora, appena il tizio ebbe raggiunto il borsone e verificato il contenuto. «Cosa c’entra Stella?».
Questa volta, dal telefono, non arrivò alcuna risposta: la voce di Van Buuren scomparve, sostituita da un ritmico tu-tu-tu.