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Venezia. 10:15.

 

La notte aveva portato con sé l’acqua alta.

Stormi di cormorani sorvolavano silenziosi la laguna, con i colori dell’autunno a fare da sfondo. Il caìgo, l’impalpabile barriera di fitta nebbia veneziana, si estendeva sui canali immersi in un silenzio irreale.

Quando il Toro mise piede sul pontile di San Zaccaria fu accolto da un’atmosfera stranamente familiare. Gli capitava spesso di tornare a Venezia, soprattutto alla fine di ogni missione. Quella però, almeno nelle sue intenzioni, doveva essere l’ultima volta.

La vicenda dei manoscritti degli Illuminati, cominciata oltre un anno prima in Islanda, l’aveva turbato profondamente. L’attentato da Paolini, il furto e gli omicidi che aveva dovuto commettere sarebbero però stati i suoi ultimi atti a servizio dei Cavalieri.

Dalla notte del sogno di cinque anni prima, dopo la quale aveva abbracciato Dio e cambiato vita, la protezione della Chiesa era stata al centro di ogni sua azione. Aveva dedicato ogni istante della sua esistenza a difenderla, commettendo a volte atti terribili senza chiedere spiegazioni. Adesso, però, qualcosa era cambiato: quella notte un nuovo sogno, più cupo e tenebroso del precedente, l’aveva fatto rinsavire, spingendolo a domandarsi se ciò che aveva scoperto era la verità.

Non poteva crederci. Non voleva crederci. Eppure, le parole pronunciate da Friedman e ciò che aveva saputo su Simonides continuavano a rimbalzargli nella mente. Avevano insinuato in lui un dubbio che non si voleva sopire.

Cercò di scacciare quei pensieri e volse lo sguardo alla hall dell’hotel Danieli. Sopra le passerelle sostavano due paramedici con giubbotti catarifrangenti. Poco lontano, sulla banchina, una barca-ambulanza attendeva con il motore acceso.

«Era arrivato ieri», gli parve di udire da uno dei sanitari. «Era un pezzo grosso del Vaticano… stroncato da un infarto».

Il Toro scosse la testa. Immaginava stessero parlando di Raniero Savelli, l’ultimo tassello della missione. Tutti gli uomini e le donne venuti a contatto con i quattordici rotoli adesso erano morti per volere del Gran Maestro.

Per anni, E.C. era stato la sua guida spirituale. Il Toro aveva sempre eseguito i suoi ordini, convinto che Dio si servisse di lui come tramite per esprimere il proprio volere. Non aveva mai sbagliato e non aveva mai avuto dubbi, tranne quando gli si erano presentati davanti Henkel e le due ragazze. Avrebbe potuto ucciderli, tagliando un pericoloso collegamento con lui, eppure non l’aveva fatto. Non sapeva neppure lui perché non aveva tirato il grilletto ad Atene, ma era convinto che fosse stata la cosa giusta. Una piccola ricompensa della giustizia sulle ingiustizie che aveva compiuto. O forse un segnale della provvidenza…

In ogni caso, doveva dirlo a E.C. di persona. Ecco perché era tornato a Venezia. Non sapeva cosa avrebbe fatto dopo, ma era certo che la sua vita da Templare, a difesa di un Dio in cui non era più sicuro di credere, finiva quel giorno.

Giunto alla calle del Dose, voltò a sinistra, in un budello appena più ampio delle sue spalle. Lo percorse tutto, zoppicando, e si ritrovò in campo Bandiera e Moro, di fronte alla chiesa di San Giovanni Battista in Bragora.

«Ti aspettavo… sapevo che saresti venuto», gli disse il Gran Maestro pochi attimi dopo, quando se lo trovò davanti sul sagrato grigio della piazza. Subito dopo i due entrarono e percorsero la navata centrale, fino a raggiungere l’antica biblioteca. Si sedettero l’uno di fronte all’altro, divisi solo dall’imponente scrivania di palissandro. Il caminetto scoppiettava a poca distanza e alcuni piccioni tubavano sui davanzali delle finestre gotiche.

«È tutto finito», esordì l’anziano, annuendo lentamente con la testa. «Hai completato la missione più importante della tua vita».

«Quei rotoli dicono il vero?», lo sferzò immediatamente il Toro, quasi per togliersi un peso. «Ho fatto un altro sogno».

L’anziano, immobile come una statua di Madame Tussauds, non disse nulla.

«Questa volta non mi è apparso Dio. È da molto che non mi appare… però ho sognato un anziano che mi sussurrava una frase».

E.C. gli appoggiò addosso uno sguardo paterno. Gli sembrava di rivivere un déjà-vu: cinque anni prima, la loro collaborazione era cominciata proprio in seguito a un sogno. «Quale frase?», disse, la voce pacata.

«“L’uomo è una specie folle: venera un Dio invisibile e distrugge una natura visibile. E non si rende conto che la natura che sta distruggendo è quel Dio che sta venerando”».

«Sei turbato. Lo capisco».

«Se quei rotoli dicono il falso e il Dio invisibile esiste realmente…». Il gigante emise un rantolo, ma si impegnò per ricacciarlo in gola. «…e se noi siamo davvero suoi figli, e non ibridi frutto di ingegneria genetica… allora perché abbiamo ucciso tutta quella gente? Se la Bibbia parla di Dio, che bisogno abbiamo di occultare i manoscritti degli Illuminati?».

Il Gran Maestro deglutì, in cerca delle parole migliori per sintetizzare il suo pensiero. Ma non era affatto facile. «La Bibbia è un simbolo e per molti è il fondamento della religione. Come simbolo va tutelata. Negli ultimi ottocento anni, illustri studiosi, scienziati e artisti hanno fatto di tutto affinché la loro verità fosse rivelata. Conosci la storia degli Illuminati, che per distruggere la Chiesa hanno disseminato le loro opere di indizi su quei rotoli. Credevano che una volta che fossero stati resi noti, il Vaticano si sarebbe sgretolato sulle sue stesse fondamenta… Era la loro ultima vendetta da eretici». Tacque, scrutando distrattamente un movimento impercettibile dietro la finestra. Poi proseguì modulando la voce con la solennità di un sacerdote: «Ma non è questo il punto: anche se la Bibbia non parlasse di Dio, e non dico che è così, questo non vorrebbe comunque dire che Dio non esiste…».

Non fece in tempo a finire la frase che un fragore assordante lo costrinse a fermarsi. Una delle vetrate ogivali affacciate sulla piazza andò in frantumi e una pioggia di calcinacci si riversò all’interno. Un oggetto cilindrico rotolò sul pavimento.

Nel tempo di un respiro, un lampo bianco, seguito da un assordante frastuono, scosse l’edificio.