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Lugano, Svizzera. 21:05.
L’uomo si sistemò il nodo della cravatta e si diresse a grandi falcate verso una fila di slot machine. A quell’ora il casinò era semivuoto.
Camminò svelto lungo il pavimento nero e raggiunse la grande vetrata della zona fumatori, nella quale si riflettevano le pareti rosse e lucide del locale.
Spense lo smartphone e poi si sedette su uno sgabello, appoggiando i gomiti alla pulsantiera metallica. Fece un cenno all’addetto del casinò e salutò gli altri giocatori: c’erano una donna sui cinquanta con capelli biondi cotonati, due arabi dallo sguardo truce, e un uomo d’affari con la camicia sbottonata. Non notò Andreas Henkel, seduto poco distante, al bancone del bar davanti a un Martini.
L’agente del Servizio Segreto Vaticano, invece, lo notò eccome. Mentre studiava ogni suo movimento, si convinse che in lui c’era qualcosa di strano. Lo osservò ancora: chioma fulva tagliata a spazzola e abito scuro di fattura dozzinale. Era davvero lui?
Quindici anni nell’SSV lo avevano preparato ad affrontare situazioni come quelle. Conosceva bene i comportamenti della preda e quelli del predatore, e quel tizio sembrava riassumerli entrambi.
«C’è un uomo che ha chiesto di lei», gli aveva sussurrato poco prima il concierge dell’hotel di via Nassa, appena era uscito dall’ascensore. Erano da poco rientrati dalla cena e, mentre la sua fidanzata Stella era salita in camera, lui aveva deciso di prendere qualcosa da bere al bar. «Oggi è la seconda volta che viene a cercarla».
«Da quanto è qui?». Il tono di Henkel era stato più incuriosito che preoccupato. Nel frattempo aveva osservato il Rosso attraverso la vetrata della reception.
«Un’ora. Forse di più».
«E ha chiesto esplicitamente di me e della signora Rosati?», si era informato l’agente dell’SSV.
Il giovanotto, stretto nel suo completo impeccabile, aveva annuito in modo convinto. «Naturalmente gli abbiamo risposto che non potevamo rivelare informazioni sui nostri ospiti. Come immaginerà la privacy è fondamentale per noi».
«Non ha lasciato un biglietto?», aveva incalzato ancora Henkel. «Non si è presentato? Non ha detto perché ci cercava?»
«No, signore», era stata la risposta rammaricata del concierge. «Ma ho pensato di avvisarla perché, come le dicevo, è seduto lì da più di un’ora».
Henkel lo aveva fissato ancora. Non ne era certo, ma più lo guardava più si convinceva di averlo già visto durante la giornata. E in quel momento l’uomo si era alzato e si era mosso in direzione dell’uscita.
L’agente dell’SSV era rimasto per alcuni secondi indeciso su cosa fare. Forse avrebbe potuto lasciar correre, dopotutto non era in Svizzera per lavoro. Il fatto che quel tizio avesse chiesto esplicitamente di loro, però, era quantomeno insolito: quel viaggio era stato programmato in tutta fretta e praticamente nessuno sapeva che erano lì.
Così, d’impeto, aveva deciso di seguirlo sul lungolago.
Il Rosso aveva camminato a passo spedito per alcuni minuti e si era fermato in una piazzetta sulla quale erano affacciate le vetrine di Bulgari e Zegna. Aveva scrutato l’acqua nera e increspata e poi le luci sbiadite avvolte nella nebbia della riva opposta.
In quel momento Henkel aveva creduto di essere stato visto, ma si era dovuto ricredere alcuni istanti più tardi: dopo avere girato su se stesso, l’uomo aveva ricominciato a camminare con incedere militaresco ed era arrivato fino all’incrocio con corso Elvezia, entrando deciso nel casinò di Lugano.
Alcuni minuti più tardi, il Rosso era seduto con aria contrita davanti a una delle centosettantasette slot machine del primo piano. Non stava giocando e sembrava stesse attendendo qualcosa o qualcuno.
Mentre lo osservava, notando il suo sguardo da cane bastonato, Henkel si domandò se non avesse esagerato a preoccuparsi. Era abituato a vedere cospirazioni ovunque… Aveva ragione o si stava sbagliando?
Era stata una giornata stressante. L’intera settimana lo era stata. Non era abituato ad affrontare eventi come quelli della mattinata: gli avvocati e gli studi legali non erano per lui. Ma lo aveva fatto per Stella. Se c’era un modo per recuperare il loro rapporto, che negli ultimi tempi si era molto deteriorato, era certamente essere lì con lei.
«Ne gradisce un altro, monsieur?». La cameriera, con un vassoio di calici in mano, lo strappò dai suoi pensieri. Era una mora appariscente, sui venticinque anni, con un sorriso affabile e il décolleté stretto in un gilet nero.
Henkel scosse il capo. «Per questa sera ho raggiunto il limite». Poi le sorrise. Se non fosse stato impegnato, probabilmente ci avrebbe provato. Il suo fisico muscoloso, la pelle liscia e perfettamente rasata, unita allo sguardo profondo, erano sempre state ottime armi per conquistare il gentil sesso. Aveva sempre avuto un’aria rassicurante, da attore di soap opera, diceva qualcuno, e nonostante fosse già un uomo di mezza età, continuava a riscuotere un buon successo con le donne.
In quel momento il Rosso alzò gli occhi dalla slot. Fece un cenno, rivolto a un giovane fermo di fianco a una multi-roulette e scattò in piedi.
L’agente dell’SSV lo seguì con lo sguardo fino a quando poté, ma poi il tizio si diresse verso il piano superiore e lo perse di vista. «Dove portano le scale?», chiese alla ragazza.
«Ai tavoli di black-jack, poker e roulette americana», spiegò lei, quasi contrariata dal fatto che lui si stesse alzando.
Se davvero voleva sapere chi era quell’uomo, era il momento di agire: rimanendo nell’ombra l’avrebbe perso. Si alzò, lasciando una banconota da dieci franchi sul vassoio, e si mosse verso la sua preda.
Attraversò di getto la zona delle roulette e si diresse alla scala che saliva al secondo piano. Salì i gradini a due a due e si trovò sul ballatoio in cristallo che si affacciava sulla sala da gioco. Alla sua sinistra c’era una parete curva rivestita di moquette rossa e un vano in cui erano collocate le porte degli ascensori.
L’uomo era immobile, di spalle, di fronte a un pannello d’ottone costellato di pulsanti. Nell’aria risuonavano una lieve melodia di sax e i suoni confusi del casinò. Henkel lo fissò per alcuni istanti valutando cosa fare. Poi si decise: da lì non poteva scappare. Doveva agire.
Lo raggiunse proprio nell’istante in cui le porte dell’ascensore si aprirono. «Entra», ordinò deciso, piombandogli addosso di sorpresa.
Il Rosso provò a voltarsi, ma Henkel glielo impedì tenendogli una mano sul collo. Non potendo fare altro, l’uomo obbedì. Entrò nell’ascensore, seguito da Andreas, e allungando il braccio riuscì a premere il tasto 0.
«Mi cercavi?», domandò l’agente dell’SSV, mentre le porte si chiudevano e cominciava la discesa. «Eccomi. Ma prima dimmi chi sei!».
L’uomo fece spallucce, dando l’impressione di non comprendere la sua lingua.
«In albergo mi hanno riferito che hai chiesto di me. Come conosci il mio nome e quello della mia fidanzata? Come sapevi che siamo a Lugano?».
Invece di rispondere, il Rosso avvicinò il polsino della camicia alla bocca e in francese disse: «È qui!».
Henkel deglutì. Gli occorse solo un istante per comprendere il grave errore commesso: era caduto in una trappola.
Quando le porte si aprirono in un piccolo atrio deserto, pochi istanti dopo, ne ebbe la conferma: ad attenderlo c’erano tre energumeni con un abito scuro e delle semiautomatiche puntate contro di lui.
«Piacere di conoscerla, signor Henkel», disse il più basso dei tre, in un italiano stentato. Era calvo, il naso adunco e gli occhi scavati. Un fine pizzetto gli cingeva le labbra, facendo risaltare la pelle olivastra.
Henkel non fiatò. Si guardò attorno per verificare se ci fossero vie di fuga. Si trovavano al piano terra, sul retro del casinò. Alla sua destra c’era un muro, coperto dai cartelli pubblicitari di un cantiere. Dalla parte opposta, invece, la parete era tutta di vetro. Oltre, nella penombra dei lampioni, si vedeva una strada angusta costeggiata da imponenti palazzi.
«Sarebbe così cortese da seguirci?».