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Atene. 13:20.

 

L’hostess si accovacciò e poggiò delicatamente una mano sulla spalla del Toro. «Signore», gli sussurrò, sorridendo. «Siamo appena atterrati».

Il sudamericano aprì gli occhi e si trovò davanti il suo abbondante décolleté. Si assestò sul sedile di seconda classe e sorrise. Si era appisolato.

«Grazie», sospirò, con la bocca impastata. Poi si guardò attorno: gli ultimi passeggeri del volo Turkish Airlines stavano scendendo dal portellone anteriore e nella parte posteriore non c’era più nessuno. Fuori dall’oblò, sulla pista, splendeva il sole. Dallo sventolare dei teli sui carrelli delle valigie, sembrava però ci fosse un gran vento.

Si alzò, accese il cellulare e prese il bagaglio a mano. Aveva raggiunto Atene molto prima del previsto: dopo aver parlato al telefono con Venezia si era diretto all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv e si era imbarcato sul primo volo disponibile, che fortunatamente era partito da lì a pochi minuti. L’unica nota stonata del viaggio era stata l’impossibilità di accomodarsi, come suo solito, in prima classe. Ma d’altra parte non aveva avuto molta scelta, visti gli ordini di ignorare la ragazzina e di occuparsi di “Atene”.

Mentre si avviava per il corridoio dell’aereo, trascinando un piccolo trolley verde militare, per un secondo tornò con la mente a due giorni prima.

Era nell’area di sosta di Calenzano, a nord di Firenze. Era trascorsa poco più di un’ora dall’incursione nella casa d’aste Paolini, e lui era fermo con il motore acceso. Tutto era andato nel migliore dei modi, due degli obbiettivi erano già stati sistemati e nessun innocente era stato ferito. Il grosso baule d’alluminio, all’interno del quale erano custoditi i rotoli rubati, adesso era sul sedile del passeggero del suo furgone Mercedes-Benz. Sul retro del veicolo c’era anche uno scooter, che gli sarebbe servito per portare a termine la sua missione una volta consegnati i rotoli.

I tre paramilitari che lo avevano aiutato nell’attentato si erano già dileguati, dirigendosi su un’auto sicura verso Arezzo. Lui, invece, aveva seguito gli ordini ed era andato all’appuntamento.

Aveva alzato lo sguardo, verso l’autostrada alla sua sinistra. Le auto dirette verso Bologna sfrecciavano ordinatamente oltre i pioppi che delimitavano l’area di sosta. Era solo, se si eccettuava un grosso pullman turistico, intento a fare carburante in un piccolo distributore con il logo Q8.

Si era messo più comodo e aveva aspettato. E l’attesa era stata breve: poco dopo, una grossa BMW nera, con i vetri oscurati e la targa diplomatica, si era accodata al suo furgone.

Il Toro era sceso agilmente, portando con sé il baule, aveva girato attorno alla berlina e aveva aperto il bagagliaio. Dall’auto non era sceso nessuno. Aveva posizionato il prezioso contenitore dei rotoli all’interno del baule e aveva estratto un piccolo trolley Roncato. Poi aveva richiuso e aveva dato due colpi sul parabrezza posteriore. L’auto aveva messo la freccia ed era ripartita in un istante.

Trascinandosi dietro la valigia con le ruote era risalito sul furgone e l’aveva aperta: conteneva una bella Beretta PX4 Storm, tre caricatori, alcuni indumenti e una cartellina. Aveva sfogliato anche quella, esaminando con calma la fotografia “graffettata” all’interno: si trattava di Atilio García Paolini, la sua prossima vittima.

 

Il suono di un’email lo riportò al presente, nel moderno terminal A dell’aeroporto di Atene Eleftherios Venizelos.

Il Toro estrasse il cellulare e aprì la comunicazione. Era dello stesso fidato collaboratore che il giorno prima gli aveva inviato le fotografie di Friedman. Questa volta all’email c’erano allegate due immagini: in una si vedeva la figura intera di un uomo corpulento, stempiato ma con i capelli neri sulla nuca legati in una coda di cavallo. L’altra era un primo piano. A giudicare dalla foto poteva avere tra i cinquanta e i sessant’anni, gli occhietti piccoli, la pelle cadente e butterata.

Il testo dell’email diceva: “Yanis Simonides, Mitropoleos & Pentelis 19B. Ieri non è rientrato a casa, ti toccherà stanarlo”.

Il Toro sospirò e ripose lo smartphone nella giacca. L’unica consolazione era che quello sarebbe stato il suo ultimo obiettivo.

Uscito sul piazzale salì sul primo taxi. «Piazza Syntagma, per favore».