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Firenze. 08:10.

 

“Ciò che tocca diventa oro”. Quella massima aveva caratterizzato l’attività di Atilio García Paolini fin da quando aveva ereditato la casa d’aste dal nonno, quindici anni prima.

Lavorava nello splendido palazzo progettato da Luca Beltrami fin da ragazzino. Subito dopo gli studi negli Stati Uniti era stato assunto sotto falso nome nell’azienda di famiglia. Aveva iniziato dal basso, facendo il garzone e occupandosi dei ritiri e delle consegne, ma in poco tempo il nonno gli aveva affidato compiti di maggior rilievo.

All’età di venticinque anni era stato nominato presidente della holding di famiglia. Cinque anni più tardi aveva ricevuto il timone della casa d’aste.

Il nome Paolini CA era conosciuto in tutto il mondo. Nato nel 1936 come negozio di arredi, la qualità dei pezzi in vendita aveva fatto sì che l’attività crescesse molto velocemente. Già negli anni Cinquanta aveva sedi, oltre che a Firenze, a Londra e New York. Attraverso i suoi banditori erano passati oggetti d’arte e di collezionismo di raro valore.

E poi erano cambiati i tempi. Negli anni Novanta, con l’arrivo di internet, erano nate forme alternative di aste. Nel 2001 era arrivato in Italia eBay e aveva rivoluzionato il mercato. La Paolini CA, per come era stata costruita e gestita, non avrebbe mai potuto competere in quel mondo del tutto nuovo.

Così, il fondatore Luis Paolini, nonno di Atilio García, aveva deciso di fare un passo indietro e di cedere la casa d’aste al nipote. In breve tempo, l’allora trentenne giovane manager aveva impostato un cambiamento strutturale, per venire incontro a un mercato sempre più esigente. Aveva lanciato un sito internet antagonista alla piattaforma americana e puntato a una maggior competitività.

“Splendidi oggetti al prezzo giusto”, era il motto dell’azienda. E in quindici anni, sotto la guida di Atilio García, la casa d’aste Paolini era diventata una delle prime realtà sul piano internazionale.

Tutto fino alla mattina precedente, quando un attentato in piena regola aveva demolito la fama conquistata in ottant’anni di storia.

 

«Sì», sbottò al cellulare Atilio García. Era appena uscito dal suo appartamento, subito dopo che i due carabinieri si erano congedati, e camminava spedito lungo borgo San Jacopo. «Questa storia mi è già costata un milione di euro! Senza contare il danno d’immagine».

Gli piaceva passeggiare per la città la mattina presto, quando le frotte di turisti non avevano ancora cominciato l’invasione giornaliera. Più di tutto amava percorrere il breve tratto di strada che collegava, attraverso il centro storico, la casa d’aste affacciata su piazza della Signoria, al suo appartamento.

«Non mi interessa che problemi hai. Qui ci giochiamo tutto!», esclamò al telefono, furibondo. Dietro di lui lo strombettio fastidioso di un motorino lo costrinse a interrompersi. «Attivati con l’assicurazione», proseguì poi.

Nel frattempo voltò a sinistra, infilandosi tra i tendoni di Ponte Vecchio. Le imposte delle botteghe erano ancora serrate e, a parte un addetto del Comune che puliva la strada, in giro non c’era nessun altro. Appena fu a metà del ponte contemplò l’Arno. Le sue acque erano scure e dalla parte della Galleria degli Uffizi sembravano confondersi con il cielo plumbeo.

«Va bene», ripeté più volte al cellulare. Non era contento di come si era messa quella telefonata. D’altra parte, dopo ciò che era successo la mattina precedente, l’assicurazione era l’unica speranza di non rimetterci una fortuna. Poco importava che i carabinieri avessero insinuato che il furto fosse una sorta di tentativo di truffa. Non avevano prove per dimostrarlo.

Chiuse la telefonata pochi istanti dopo e si fermò a respirare l’aria mattutina, le gambe larghe e gli occhi chiusi.

All’improvviso, il ronzare del motorino che aveva udito pochi istanti prima si fece più intenso.

Si voltò di colpo, sapendo che non era ammessa la circolazione di veicoli a motore su Ponte Vecchio. Stava perfino per dire qualcosa. Ma i rimproveri gli rimasero bloccati in gola.

Lo scooter superò il netturbino.

Il motociclista incrociò lo sguardo dell’addetto del Comune e proseguì dritto. Si fermò a un metro da lui.

Paolini esaminò il suo volto anonimo mentre l’uomo estraeva dalla giacca una piccola rivoltella nera. Se la vide puntare addosso e, prima che potesse capire perché, udì il primo dei tre spari.

Il gallerista si accasciò a terra, il ventre sanguinante. L’ultima cosa che vide fu la statua a Benvenuto Cellini che veniva inghiottita dal buio.