53
Tabriz, Iran, 70 km a sud del Sito A. Nello stesso istante.
Massoud Dinmohammadi, la guida che aveva accompagnato gli stranieri nella zona dell’Adji Chay, rientrò in città a bordo del suo vecchio pick-up Nissan.
Era depresso e avvilito sia nel corpo che nella mente. Quel lavoro, che aveva ottenuto lottando con le unghie e con i denti, non era stato di nessun aiuto per salvare la piccola Ana. La cinese, con il suo viso di pietra, si era limitata a pronunciare frasi di circostanza. “Quella è una serra. Qui incrociamo vegetali. Non guariamo i malati”. Lui sapeva che mentiva… Anche perché le ragazze le aveva viste con i suoi occhi!
Parcheggiò l’auto sul bordo di una polverosa strada di periferia. I palazzi erano tutti uguali, grandi condomini di cinque o sei piani, con finestre piccole e facciate annerite dallo smog. Sullo sfondo, oltre la vallata, si vedevano i grattacieli del centro. Avevano gli stessi colori delle montagne a cui erano addossati e, nella nebbia, davano l’impressione di fare un tutt’uno con il cielo marrone.
«Come va oggi?», si informò sottovoce Massoud, appena entrato in casa. L’aria era pesante e c’era penombra. L’unica grande stanza era occupata da quattro persone: una bambina sdraiata su un letto, due donne sedute ai suoi piedi e un anziano accomodato su una sedia, accanto a una cucina da campo.
Il vecchio si alzò a fatica, scuro in volto, e abbracciò Massoud. «Vieni».
La guida capì immediatamente che le cose non andavano affatto bene. La bimba era sudata, i capelli biondi arruffati sul cuscino, gli occhi chiusi e la pelle pallida. Una delle due donne le stava tamponando la fronte con un panno di stoffa umido.
«Come è andata, figlio mio?», gli chiese il vecchio sul pianerottolo, appena si furono richiusi la porta alla spalle.
Massoud scosse il capo ripetutamente e si appoggiò alla balaustra di ferro. «Non mi hanno voluto ascoltare», sbottò, mostrando l’assegno avuto dalla cinese.
L’anziano rimase in silenzio. Si accarezzò la tunica e guardò malinconico verso la strada. In lontananza si sentì un cane abbaiare. Poco distante c’era una vecchia Toyota con a bordo due uomini.
«E qui come vanno le cose?». Il figlio indicò l’auto. Suo fratello gli aveva riferito che nei giorni precedenti, qualcuno con uno strano accento americano aveva chiesto del Meidan. Sembrava che tutti volessero essere accompagnati a quella base…
«Ieri è passato il dottore». L’uomo scosse la testa, cambiando discorso. «Dice che purtroppo ormai siamo alla fine».
L’espressione della guida si fece dura. Non lo poteva accettare. Dopo la morte della moglie aveva cresciuto lui la piccola Anahita, con l’aiuto delle sue sorelle e di suo padre. E poi, un anno prima, la bambina si era ammalata. Nessuno gli aveva spiegato esattamente cosa avesse; forse, si era detto, non sarebbe neppure stato in grado di capirlo. Sapeva solo che era una malattia del sangue. Una che probabilmente in Occidente avrebbero potuto guarire. Ma non lì, lì era incurabile.
«Non è possibile. Ci deve pur essere qualcosa che possiamo fare».
Il vecchio abbassò lo sguardo. «Possiamo solo pregare Allah…».
«No!», sbottò Massoud all’improvviso. «Io non mi rassegno».
Spalancò la porta e rientrò nella stanza. Le due donne lo guardarono, le lacrime agli occhi.
«Cosa vuoi fare?», gli chiese la prima, quando l’uomo si avvicinò al letto e sollevò la bambina di peso.
«Credono di comprare il mio silenzio con pochi riyāl!». Le diede un bacio sulla fronte e poi con la piccola in braccio tornò verso la macchina. «Non aspetterò che muoia senza fare nulla!».