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Gerusalemme. 11:00.
-36:00:00 alla deadline.
La kippat barzel, meglio nota come Iron Dome, “cupola di ferro”, è un sistema antimissile installato a protezione del territorio israeliano.
Costruito con il contributo degli Stati Uniti, per mezzo di batterie di missili Tamir è in grado di intercettare i razzi di Hamas e della jihad islamica prima che raggiungano le città. Dal momento in cui l’allarme suona, ogni residente ha tre minuti per raggiungere il luogo adibito alla sicurezza. Di solito si tratta di stanze apposite, di rifugi o di vani scala. Ma quando non c’è un riparo sicuro nelle vicinanze, l’unica soluzione è sdraiarsi per terra, proteggendosi il capo con le mani.
Mentre la sirena rimbombava come una voce sguaiata nei vicoli della Città vecchia, i due agenti della polizia si stesero a pancia in sotto. Come tutti gli israeliani, erano abituati a quei fuori programma. Nonostante avessero eseguito la procedura alla lettera, sapevano però che non c’era molto da preoccuparsi: nella quasi totalità delle volte, infatti, gli ordigni provenienti dai territori palestinesi venivano intercettati dalla cupola.
Quello, oltretutto, era anche un periodo relativamente tranquillo: dopo l’ultima offensiva di terra dell’esercito, i terroristi dovevano essere a corto di razzi Fajr-5, visto che i lanci si erano fatti più radi.
E in effetti, l’emergenza cessò quasi subito. Tra i sorrisi sornioni di alcuni arabi che non si erano neppure messi al riparo – convinti, come al solito, che poiché gli attacchi erano diretti agli infedeli, loro sarebbero rimasti incolumi – le sirene smisero di suonare. In pochi secondi il mercato di ha-Tsofrim Street si rianimò.
I due agenti in divisa si alzarono in piedi e raggiunsero il vicino quartiere ebraico, dove aveva sede il B&B Moriah: il proprietario diceva di aver riconosciuto due fuggitivi ricercati dall’Interpol e la cosa andava verificata.
Yuval Shalom li attendeva di fronte all’ingresso, il viso pallido e un’espressione rabbuffata. «Sono saliti poco fa», mugolò, indicando le scale. «Primo piano, camera numero 9. Sulla destra».
I due agenti si mossero velocemente e raggiunsero la stanza al piano superiore. Uno dei due bussò. «Police. Please, open the door!», ingiunse in inglese. «Polizia, aprite la porta!», ripeté anche in ebraico.
Nessuna risposta.
L’agente più corpulento, un quarantenne dai capelli biondi e con la pelle lentigginosa, estrasse la pistola e indicò la maniglia al collega. L’altro annuì con il capo e provò a girarla. Era aperto. «Polizia», proclamò, spianando l’arma.
Ma la camera era vuota.
Henkel, a pochi metri di distanza, salì l’ultimo gradino e spinse una porta metallica. Un raggio di sole si impadronì della penombra del vano scala.
L’allarme antimissile li aveva salvati. Pochi minuti prima, infatti, avevano afferrato il portatile e, seguendo le indicazioni affisse nel corridoio dell’hotel, avevano raggiunto il vano di sicurezza: una stanzetta blindata nei pressi del piccolo ascensore. Erano rimasti lì per un po’ anche dopo il cessare delle sirene e quando finalmente si erano decisi a uscire avevano visto i due agenti entrare nella loro camera. Avevano atteso ancora, indecisi sul da farsi, e poi si erano diretti dalla parte opposta, a una scaletta di legno che saliva al piano superiore.
E adesso erano su una minuscola terrazza, tra tetti in cotto, biancheria stesa ad asciugare e parabole arrugginite. Accanto a loro c’erano alcune lenzuola bianche che sventolavano. Oltre si scorgeva, a uguale distanza, il campanile del Santo Sepolcro da una parte e la cupola dorata della Roccia dall’altra.
«Per di là!», indicò l’agente dell’SSV, richiudendosi la porta alle spalle.
Viola portò il palmo della mano a mo’ di visiera, per schermarsi dal sole. «Sui tetti?»
«Là in fondo!», spiegò Henkel in modo concitato. Alla loro sinistra, in direzione del quartiere cristiano, si scorgevano alcuni edifici più bassi coperti da un ponteggio. «Se riusciamo ad arrivarci siamo salvi».
Viola apparve stupita. I palazzi erano tutti collegati: un saliscendi color sabbia, interrotto da antenne e comignoli, che si stagliava sul cielo azzurro. Per arrivare in quella zona avrebbero però dovuto camminare per una cinquantina di metri su una falda scoscesa a strapiombo sui vicoli. «È una follia!».
Henkel non badò alle sue parole. Si arrampicò su un muretto rivestito di ceramica e camminò in bilico per alcuni metri. Poi si aggrappò a un pluviale e salì sulla copertura in eternit del palazzo accanto. «Che aspetti? Questo è il prossimo posto dove guarderanno i poliziotti».
Viola rimase impalata per un istante. Guardò di sotto: la stradina, piena di venditori e di negozi, era ad almeno quindici metri. I muri dei palazzi erano collegati da ponticelli e da archi gotici. Ma erano troppo lontani. Sbuffò e seguì Henkel sul tetto.
Il poliziotto dai capelli castani, corporatura da giocatore di football e taglio a spazzola, tornò in corridoio proprio mentre la porta della terrazza si richiudeva. Una lama di luce, in cima a una scaletta, si spense davanti ai suoi occhi.
«Di sopra», urlò al suo collega. Poi si lanciò sui gradini e spalancò l’uscio di metallo.
Abbagliato dal sole, si voltò di centottanta gradi: la terrazza era molto piccola, occupata per la maggior parte dalla biancheria dell’hotel stesa ad asciugare.
«Non saranno lontani».
Il collega si affacciò dal ballatoio. Sotto di lui, in fondo al vicolo, si vedeva la tettoia di Sha’ar ha-Shalshelet Street, la via che segnava il confine tra il quartiere ebraico e quello musulmano. «Di qua non possono essere andati», constatò.
In quel momento, tra il coro di voci ininterrotte che si alzava dalla strada, si udì uno stridio di ferri.
I due agenti alzarono lo sguardo in direzione del sole, verso la porta di Damasco. Oltre ad alcuni tetti, a una cinquantina di metri di distanza, si vedeva un ponteggio di tubi sospesi nel vuoto. In quello posizionato sullo spigolo del palazzo c’era una persona appesa.
Henkel provò ad afferrare Viola per un braccio, ma non ci riuscì.
Non aveva visto cosa era successo ma aveva sentito il rimbombo dei tubi e il ticchettio dei bulloni che saltavano uno a uno. Poi si era voltato e lei era appesa a uno spuntone arrugginito, le gambe penzolanti nel vuoto. Sembrava che il ponteggio si fosse letteralmente sgretolato sotto i suoi piedi.
«Cerca di afferrare la mia mano», le urlò.
Viola non rispose. Era avvinghiata al tubo e cercava di dondolarsi con le gambe.
«Dài!», la incitò ancora l’agente dell’SSV. Appoggiò il computer e si sdraiò su una passerella di legno per allungarsi verso di lei.
La ragazza espirò con tutta l’aria che aveva nei polmoni e staccò una mano per afferrare quella di Henkel. Cercò di flettere i muscoli per tentare di raggiungerlo, ma quando si sentì sfiorare dalle sue dita, le mancò l’appoggio: il ferro al quale era appesa dette un nuovo scossone e si staccò completamente dal ponteggio.
Non fece neppure in tempo a rendersi conto di quanto stava accadendo che si ritrovò catapultata nel vuoto.
Agitò le braccia, nel disperato tentativo di opporsi alle leggi di Newton, ma senza ottenere il risultato sperato.
Cadde inesorabilmente verso la strada per un tempo che non riuscì a quantificare. Poi all’improvviso provò un dolore lancinante alla schiena.
I due poliziotti corsero a testa bassa sul tetto.
Uno dei due fuggitivi era lì, a pochi metri di distanza.
Quando furono abbastanza vicini per rendersi conto che era la donna, la videro precipitare nel vuoto, insieme a tubi di ferro, viti e bulloni.
Il biondo estrasse la pistola e la puntò verso l’uomo, che era ancora sdraiato sul ponteggio.
«Fermo», gli urlò.
Lui parve non sentirli, così l’agente esplose un colpo, che andò a infrangersi su un muro. L’unico effetto fu quello di impregnare l’aria di calcinacci.
Il fuggitivo alzò lo sguardo ma, invece di arrendersi, strisciò lungo la facciata del palazzo. Si aggrappò alla parte di ponteggio ancora integra e cominciò a calarsi verso il vicolo sottostante.
I due agenti, in bilico sulle tegole del tetto, lo osservarono senza poter far nulla. Dalla loro posizione non avrebbero mai potuto raggiungerlo, perché la parte di tubi crollata era proprio quella che collegava i due edifici.
L’agente dai capelli castani urlò qualcosa in ebraico, agitando le braccia, e poi si sporse per vedere in fondo al vicolo.
Henkel raggiunse il selciato di Shuk ha-Tsaba’im Street aggrappandosi ad alcune capriate di cemento e calandosi tra due tettoie spioventi. Alla sua destra c’era un tunnel ad archi gotici, gremito di botteghe, che proveniva dal Muro del Pianto. A sinistra, tra tappeti appesi a mo’ di soffitto, tende colorate, frutta, sandali, boccette di acqua benedetta, souvenir di ogni tipo e decine di turisti, si apriva una delle più importanti vie commerciali della Città vecchia.
Sempre con il computer in mano, cercò di orientarsi, per cercare di individuare la zona in cui doveva essere caduta Viola. Era precipitata nel vuoto da almeno dieci metri d’altezza. Non sapeva cosa aspettarsi.
Alzò lo sguardo: in quel canyon profondo, odoroso di cibo e gremito di gente, la luce del sole faticava ad arrivare. Ma ciò nonostante la vide: il sottotenente era lì, in piedi a pochi passi da lui, nei pressi della veranda di un venditore di oggetti religiosi. C’era un capannello di gente attorno a lei che guardava stupita la voragine nel lucernario e le schegge di vetro sul pavimento.
Un uomo di mezza età, con una folta barba arruffata, calvo e calato in una tunica bianca, stava gesticolando, imprecando in arabo.
Viola annuiva, ma lei stessa non era in grado di spiegare come fosse riuscita ad atterrare su quel cumulo di tessuti. Mentre precipitava nel vuoto, la sua caduta era stata attutita da qualcosa di morbido. Ricordava di essersi sentita sballottata a destra e a sinistra, come in una gigantesca giostra. Poi si era ritrovata avvolta da più strati di tela blu, liscia e di materiale plastico: con ogni probabilità una sorta di tenda tesa sopra il vicolo per difendere i turisti dal sole, dalla pioggia, o magari dai calcinacci.
Senza sapere esattamente come, aveva cominciato a rotolare e poi era finita dritta sul lucernario. Aveva sentito il vetro spaccarsi sotto di lei e alla fine si era ritrovata lì, in quella veranda, stesa su un cumulo di abiti, stoffe e morbida mussola.
«Scusate. La ragazza è con me…», intervenne Henkel in ebraico. Sventolò l’ultima banconota da cinquecento euro, indicando il danno alla veranda, e poi si inchinò. «È stato un incidente».
Si avvicinò a Viola, controllando che in vista non ci fossero militari di pattuglia, e la abbracciò. «Stai bene?».
Lei, lo sguardo perso sui tappeti, annuì.