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Gerusalemme, 24 ottobre. Ora locale 08:45.
-38:14:20 alla deadline.
Imprecando, Elisabeth Ravitz si calò giù dal pluviale della Belgium House come se fosse una pertica. Nonostante fosse ormai considerata dai più una nerd senza alcuna attitudine all’attività fisica, da ragazzina aveva fatto ginnastica artistica. Non si allenava da tempo, tuttavia poteva dire di essere ancora in forma.
Quando le sue scarpe da ginnastica toccarono il suolo, si mise a correre in direzione del Ross Building, l’edificio che occupava la zona antistante la biblioteca.
Si infilò in un vialetto alberato, saltando sopra le piccole siepi che delimitavano la zona pedonale e sbucò in un parcheggio. Da lì, la strada costeggiata da muretti di pietra scendeva dolcemente.
Mentre correva a più non posso, Elisabeth mormorava tra sé parole irripetibili. Era l’unica testimone oculare dell’omicidio del professore, aveva visto l’assassino in volto e soprattutto lui aveva visto lei. Anche se la sera precedente era riuscita a riprendersi la tesina, l’idea di andare nello studio di Friedman era stata una scelta obbligata.
«Ho dimenticato il foglietto con il suo numero in ufficio…», le aveva detto il raeliano la sera prima, invitandola a entrare.
E l’assassino, se aveva un minimo di competenze informatiche, avrebbe potuto risalire fino a lei anche solo dal numero di telefono. Lo stesso che aveva scritto di pugno su un Post-it la mattina precedente. Esattamente ciò che era tornata a cercare. Purtroppo però era arrivata tardi: lo studio era stato perquisito prima che lei arrivasse.
Doveva andare dagli sbirri. Ecco cosa avrebbe dovuto fare. Ma se le avessero fatto le domande sbagliate? Se per caso le avessero chiesto della sua storia con Walid… e di quello che sapeva sul suo ex fidanzato? No. Aveva fatto bene a cercare di risolvere il problema da sola.
Mentre affrontava una curva, divorando il marciapiede con l’agilità di un centometrista, cercò di scacciare tutti quei pensieri. Doveva solo preoccuparsi di fuggire. Ma da chi? Non aveva mai visto quei due tizi in compagnia del rettore, anche se era convinta fossero in combutta con lo scimmione della sera prima.
Quando raggiunse la strada principale, oltre gli alberi, in fondo alla vallata le si aprì la veduta della città.
Era esausta, ma ormai poteva dire di essere in salvo. Fino ad allora sembrava che nessuno l’avesse seguita.
Fino ad allora.
Prima di attraversare si voltò e rimase folgorata.
Viola correva sul marciapiede con l’agilità di un felino.
Seppur con maggior difficoltà della fuggitiva, l’aveva seguita sul cornicione ed era riuscita a calarsi fuori dalla finestra, saltando poi sul selciato.
Non aveva idea di chi fosse quella ragazzina, orecchino al naso, look trasandato e treccine raccolte in una coda. Però, quando l’avevano vista, stava rovistando sulla scrivania di Friedman.
Seguirla era stato un riflesso condizionato, da carabiniere… Dopotutto, se stava scappando, doveva avere qualcosa da nascondere.
Mentre passava accanto a un secondo ingresso della Belgium House, notò un uomo che usciva: era Henkel. Doveva aver raggiunto quella porta passando per l’interno.
Contemporaneamente, da una viuzza laterale sbucò un furgoncino. Salì verso di lei e si fermò in un parcheggio contrassegnato con il simbolo dei disabili. Sulla fiancata campeggiava il logo lilla e arancione della FedEx.
Viola si concentrò sul suo obiettivo: la ragazza era arrivata in fondo al vialetto, a ridosso di una cancellata. Si voltò e quando si accorse di lei ricominciò a correre, attraversando la strada.
Il sottotenente cercò di aumentare il passo. Giunta anche lei in fondo alla discesa individuò la fuggitiva a un centinaio di metri, lungo un viale alberato. La vide montare in sella a uno scooter e partire a razzo.
Il carabiniere fece un giro su se stessa. Per un secondo fu tentata di buttarsi in mezzo alla strada per fermare un’auto. Magari quella che stava uscendo da un parcheggio, proprio nei pressi del motorino della giovane. Ma non ce ne fu bisogno: il furgone intravisto poco prima le si affiancò.
«Sali». La voce era quella di Henkel. Viola lo fissò solo per un istante. «L’ho preso in prestito. Sali se non vuoi perderla!», ripeté sorridendo.
In sella al motorino, Elisabeth fece a zig-zag tra le auto che salivano lungo Derech Balfour, la strada che costeggiava il campus e arrivava al cancello nord.
Si diresse in discesa verso i palazzi di Givat Ram. Giunta su un lungo rettilineo, strinse il manubrio e si voltò. Poco distante c’era un furgone bianco, lanciato a tutta velocità. Subito dietro notò anche un grosso fuoristrada nero.
In uno dei due veicoli potevano esserci i suoi inseguitori?
Se era così non aveva scampo: il bivio verso Shmu’el Bait Street era ancora troppo lontano. Quelli, erano di sicuro molto più veloci del suo scooter.
Agitata, si voltò ancora. Come immaginava i due veicoli avevano guadagnato terreno.
Giunta a uno svincolo che scendeva verso la città si buttò a destra, piegando il motorino come un pilota di MotoGP.
Davanti le si aprì la vallata brulla, costellata di edifici bianchi che risalivano fino al monte degli Ulivi e al monte Scopus.
E in quel momento ebbe un colpo di fortuna: dal fondo della strada vide due auto della polizia venire verso di lei con i lampeggianti inseriti. Subito dopo udì il rimbombo delle sirene.
Henkel scalò la marcia del furgone, lanciato a tutta velocità lungo il confine occidentale dell’università.
La giovane era davanti a loro, sempre più vicina. Adesso aveva voltato a destra e si era buttata in una discesa a strapiombo sulla valle.
«Forse abbiamo compagnia», esclamò d’un tratto Viola, fissando lo specchietto retrovisore sul lato del passeggero.
«Ho visto», confermò Henkel. «Era parcheggiato sul lato della strada ed è partito subito dopo la ragazza».
«Puoi seminarlo?». La sua voce era incerta. Si affacciò al finestrino per vedere meglio il veicolo: era un grosso fuoristrada nero, forse un Hummer, i vetri oscurati. Viaggiava a una ventina di metri da loro e guadagnava terreno.
«Sì. Ma poi perdiamo la ragazza», ammonì lui, spostando lo sguardo prima sulla giovane davanti a loro e poi sullo specchietto retrovisore.
«Attento», strillò improvvisamente Viola, rientrando nell’abitacolo.
L’auto si avvicinò ancora: scattò in avanti e li affiancò con una facilità disarmante. Il motore urlava.
Henkel provò ad allargarsi sulla sinistra, per costringere il fuoristrada ad accodarsi. Ma il veicolo restò di fianco a loro, sulla corsia di sorpasso. Per qualche attimo le due fiancate si toccarono. Uno spruzzo di scintille dorate inondò l’asfalto.
Improvvisamente l’Hummer sterzò di colpo, colpendo con il paraurti lo sportello del guidatore.
Il furgone sobbalzò come una molla, ma Henkel riuscì a tenerlo ancorato all’asfalto.
«Ci vuole buttare fuori strada», gridò Viola.
E quello era esattamente ciò che pensava Henkel. Se solo avesse avuto la sua Sig Sauer…
Dopo un secondo, il potente fuoristrada ci riprovò: allargò sulla sinistra e poi, come in una manovra a uncino, si avvicinò di nuovo. L’impatto fu violentissimo: il fuoristrada riuscì a speronarli impattando sul lato sinistro.
Questa volta il colpo fu troppo violento perché Henkel riuscisse a compensare la forza d’inerzia: il furgone scartò sul marciapiede, che fece da trampolino, e si innalzò su due ruote. Per alcuni metri proseguì dritto, come un equilibrista sulla corda.
L’agente vaticano provò a sterzare, tentando di riportarlo in posizione orizzontale, ma non ci riuscì: il veicolo si piegò su se stesso e si ribaltò su una fiancata, strisciando sull’asfalto.