46
Base di ricerca Sito A, Nord dell’Iran. Poco dopo.
-35:44:15 alla deadline.
La guida Massoud Dinmohammadi fu fatta accomodare in una moderna sala riunioni, un caleidoscopio di cristallo, marmo, acciaio e alluminio satinato.
Si trovava al primo piano di un grande edificio, collocato nel centro della base e denominato Building 1. Oltre le ampie vetrate a specchio – che rivestivano la parete esterna del palazzo – si vedevano quattro grandi hangar e un andirivieni di mezzi militari. Sullo sfondo, avvolta nella nebbia del mattino, svettava una gigantesca cupola metallica. Dalla sua posizione si scorgeva solo la sommità: sembrava un immenso ombrello lucente, tanto grande da contenere un intero quartiere.
Massoud si sedette in una delle sedie disposte attorno al tavolo ovale e attese. Era distrutto ma felice e pieno di speranza. Dopo che il giorno precedente aveva accompagnato i suoi nuovi datori di lavoro fino alla base, era rimasto accampato fuori dai cancelli. E la cosa si era rivelata utile, così come il fatto che avesse contribuito a ritrovare una delle ragazze fuggitive. Quella mattina, infatti, una delle guardie aveva bussato al parabrezza del suo pick-up Nissan e l’aveva invitato a entrare.
Aveva fatto di tutto per farsi ingaggiare come guida per quella missione, e alla fine era stato premiato. Passava per essere una persona affidabile e poteva vantare grande conoscenza della zona dell’Adji Chay: esattamente le caratteristiche che aveva richiesto quella gente un paio di giorni prima. Grazie a suo fratello, così, era riuscito a farsi assumere. Ma non l’aveva fatto per i soldi. Tutt’altro. L’aveva fatto per sua figlia Ana… solo per poter vedere meglio il famoso Meidan.
Si diceva che quel luogo, che gli stranieri chiamavano semplicemente Sito A, fosse magico e che lì le persone guarissero da ogni male. Forse erano solo dicerie, alimentate dal mistero che circondava quella base grande come un’intera città. Nella sua situazione, però, anche una semplice leggenda poteva fare la differenza tra la vita e la morte.
Distolse lo sguardo dalla cupola che riempiva l’orizzonte e si concentrò sulla sala riunioni: sulla parete di cristallo campeggiava un’enorme aquila con il logo GenARTIF. Accanto era posizionato un mobile di ebano e un dispositivo per videoconferenze.
In quell’istante, dal corridoio sbucarono quattro persone: tre militari cinesi in mimetica, con fucili d’assalto sulle spalle, e una donna avvolta in un tailleur scuro. I capelli neri le sfioravano le spalle, la pelle era bianca, quasi pallida. Il taglio degli occhi era leggermente a mandorla. Se non l’avesse vista muoversi, l’avrebbe presa per una statua di marmo. Si sedette di fronte a lui e poggiò con grazia una cartellina al centro del grande tavolo.
«Innanzitutto volevo ringraziarla per averci aiutato a ritrovare la ragazza», esordì Xiaochen Zhao in un arabo ingessato ma impeccabile sotto il profilo della grammatica.
«Mi è dispiaciuto che l’altra ragazza non ce l’abbia fatta…», fece Massoud, riferendosi all’incidente d’auto. Si passò una mano sulla folta barba e, prima d’abbassare lo sguardo, lanciò un’occhiata alla cinese.
«Mi dicevano che voleva incontrarmi…», tagliò corto Xiaochen.
L’uomo annuì, scuro in volto. «Mia figlia, direttrice… è gravemente malata e si dice che qui possiate guarirla!». Andò subito al punto. Nessun giro di parole, da uomo concreto qual era.
Xiaochen accennò un sorriso di rammarico e si lasciò cadere sullo schienale di pelle. «Temo che le sue speranze siano mal riposte, signor Dinmohammadi. Qui non guariamo i malati…».
«Le ragazze», insistette lui. «Le ho viste con i miei occhi. Sono malate e sono qui per essere guarite!».
La cinese si alzò di scatto. «No, signor Dinmohammadi. Qui ci occupiamo di angiosperme e palinologia. Vede quell’edificio là in fondo?». Xia indicò la cupola fuori dalla vetrata. «È una grande serra, la chiamiamo il Giardino. Lì, incrociamo varie specie vegetali. È questo che facciamo… nulla di più».
Massoud non replicò e si limitò a far cadere lo sguardo sui tre militari armati di tutto punto fermi sulla porta. Anche se era evidente che quella donna mentisse, non avrebbe saputo cosa dire… Lui le aveva viste le ragazze, quella morta e quella ripescata dal fiume. Avevano qualche malattia. Non sapeva quale, ovviamente, ma di una cosa era certo: erano lì per essere guarite!
«Ho sentito anche io queste voci, ma purtroppo non guariamo i malati come dicono…», continuò, accondiscendente, la cinese. La marmaglia di gente accampata da giorni fuori dai cancelli avrebbe potuto crearle problemi. Sapeva che i servizi segreti americani avevano fiutato qualcosa sulle cavie e aveva ricevuto Massoud proprio per quel motivo: sperava che l’uomo avrebbe potuto convincere quel piccolo esercito di pezzenti ad andarsene.
«Facciamo così, signor Dinmohammadi», disse lei. Poi estrasse dalla cartellina un assegno già compilato e glielo porse come se si trattasse del Santo Graal. «Per ringraziarla di quel che ha fatto per noi questa mattina le darò un altro piccolo compenso. Magari potrà esserle utile per sua figlia…».
Massoud lo afferrò: tre milioni di riyāl, poco più di cento dollari. “Non sono qui per i soldi… ma per Ana!”, avrebbe voluto dire.
«Se avremo ancora bisogno di una guida, ci rivolgeremo certamente a lei», concluse Xiaochen con un sorriso austero, mentre imboccava la porta. «Accompagnatelo fuori».