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Base di ricerca Sito A, Nord dell’Iran. Pochi minuti prima.
«E ora cosa facciamo?», domandò Viola, pochi istanti dopo che la direttrice della base fu uscita.
Erano chiusi in una stanzetta di due metri per due. Alle pareti c’erano scaffalature colme di scatoloni, cavi elettrici e medicinali. Sopra la porta in ferro, da una piccola vetrata, filtrava la debole luce dell’alloggio. In lontananza si udiva una sirena di sottofondo, spari isolati e l’abbaiare di un cane.
«Io credo che questa potrebbe fare al caso nostro», sorrise Elisabeth, che estrasse dalla cintura dei pantaloni una piccola Walther P99. Era l’arma che le aveva dato l’agente Dawe poco dopo il loro arrivo in Iran. Aveva avuto la prontezza di non consegnarla alla cinese.
«Direi di sì», constatò Henkel, che se la fece dare. Armò il colpo e mirò alla maniglia della porta. «State indietro». Poi fece fuoco, voltando il capo dalla parte opposta.
Il proiettile si insinuò nella serratura come un coltello nel burro e i quattro si ritrovarono nel soggiorno. Dalla vetrata che si affacciava sulla base si vedeva un elicottero in fiamme. In lontananza, verso gli edifici, alcuni fumosi focolai. Più vicino a loro, dalla parte della grande cupola, un altro Black Hawk stava atterrando in un turbinio di mulinelli d’aria.
«La bambina», singhiozzò Elisabeth, vedendo la piccola Anahita, raggomitolata per terra accanto al corpo di suo padre. Era al centro di una pozza di sangue, completamente imbrattata, e piangeva sommessamente.
Fu Henkel ad avvicinarsi a lei e a prenderla in braccio. «Sta’ calma», le sussurrò, pur immaginando che non capisse l’inglese. Le pulì dolcemente il viso e le accarezzò la testina. Lei lo abbracciò, lo strinse e si appoggiò alla sua spalla.
Viola, intanto, si spostò di un passo, avvicinandosi al tavolo. L’originale della lettera di Bonifacio era ancora lì. Lo afferrò e se lo mise in tasca. Poi volse lo sguardo sulla parete. «Qual è il piano?»
«Hangar 4, cavia 45». Graham Dawe picchiettò con l’indice sulla didascalia impressa sul monitor.
Henkel annuì sospirando: se le immagini che aveva davanti erano in diretta, sembrava che Stella stesse muovendo le palpebre. Forse si stava addirittura svegliando. Il timer diceva che mancavano meno di cinque minuti alla deadline: in così poco tempo avrebbero dovuto trovare l’hangar, superare l’eventuale sorveglianza e staccarla dalle macchine.
«Da quella parte», Dawe indicò fuori dalla finestra, alla sinistra della pista di atterraggio. Sotto il cielo nero, nella parte antistante il palazzo più alto, si stagliavano alcune grosse costruzioni con il tetto arrotondato. «Quelli dovrebbero essere gli hangar».
La jeep con a bordo Xiaochen Zhao voltò a sinistra, accompagnata da uno stridio di pneumatici.
Davanti a lei si apriva la via principale della base, gremita di manifestanti. In fondo, si notavano alcuni focolai e di tanto in tanto si udivano esplosioni isolate. Fortunatamente, i più facinorosi si stavano dirigendo dalla parte opposta rispetto a quella da cui stava arrivando lei… Probabilmente agli hangar 2 e 3.
«Giragli attorno», ordinò all’autista, che scalò la marcia e voltò ancora a sinistra, immettendosi tra due muri di cemento, le pareti esterne degli edifici 4 e 5. L’auto sobbalzò sull’asfalto sconnesso. In quel punto il passaggio era più stretto e buio. I rivestimenti delle costruzioni prefabbricate incombevano come giganti, disegnando lunghe ombre sulla strada.
«Direttrice, mi sente?», il timbro vagamente britannico del responsabile della sicurezza gracchiò dalla radio.
«Parla», sospirò Xiaochen, assestandosi nervosamente sul sedile del passeggero.
«C’è un problema!».
“Un altro?”
«Cosa succede?»
«Gli iraniani… Due F-14 sono appena decollati da Teheran. Saranno qui in quindici minuti».
«Di’ a Van Buuren di sbrigarsi. Abbiamo dovuto girare attorno all’elicottero ma ci vediamo al terminal». Fece appena in tempo a pronunciare quelle parole che sul fondo della strada comparvero alcune persone. Da quella posizione non era facile capire se si trattava di soggetti ostili. Occorsero soltanto pochi istanti per averne la certezza: una raffica di mitra, con ogni probabilità sparata alla cieca, colpì in pieno l’autista. Una macchia di sangue schizzò all’interno dell’abitacolo.
L’uomo fu sbalzato all’indietro e subito dopo, come se fosse stato spinto alle spalle, tornò ad accasciarsi sul volante. Il clacson cominciò a suonare. L’auto procedette dritta per un breve tratto e poi scartò tutta a sinistra. Terminò la sua corsa sul muro dell’hangar 5, in una cacofonia di airbag che esplodevano.
“Cazzo”. Xiaochen si guardò attorno facendo roteare le pupille come due orologi a pendolo. Gli ostili in fondo alla strada adesso stavano correndo verso di lei. Alla sua sinistra, ad alcuni metri di distanza c’era però la scala di sicurezza dell’hangar 4. In alto correva un lungo ballatoio alla fine del quale era collocata una delle uscite antincendio.
Senza pensarci, estrasse la Colt dalla cintura e si precipitò alla scala di metallo.
«È lei!», sibilò Graham Dawe, puntando nuovamente il fucile Type 56 che aveva sottratto a una delle guardie a terra.
Erano scesi di corsa dalla collinetta in cui si trovavano gli alloggi del personale e si erano diretti verso gli hangar; avevano costeggiato per un breve tratto la pista di atterraggio e poi avevano voltato a sinistra, seguendo la sagoma della grande cupola. Nel piazzale antistante la serra c’era un Black Hawk con il rotore in movimento e alcune guardie della base a terra. A loro avevano preso i mitra, copia cinese del kalashnikov sovietico.
«Sta scappando. Si dirige all’hangar 4», fece notare Viola, vedendo la donna che correva lungo la balaustra metallica della costruzione. Nonostante fosse arrivata in auto, non aveva un grosso vantaggio, forse perché aveva girato attorno agli edifici passando per la pista d’atterraggio. «Dobbiamo fermarla».
Nello stesso istante un’altra jeep identica a quella finita contro il muro comparve sul lato opposto.
«Voi pensate a Stella». Dawe imbracciò il mitragliatore e avanzò di qualche passo. «Di loro mi occupo io». Si staccò dal gruppo, si inginocchiò e prese la mira.
A quel punto Henkel, che ancora aveva la bambina in braccio, si avvicinò a Elisabeth e gliela passò. «Tenetela al sicuro», disse, rivolto anche a Viola. Grazie alla piccola Anahita tutte e tre sarebbero rimaste lontano dal centro dell’azione, ed era ciò che lui voleva. «Sul piazzale ci sono gli americani, raggiungeteli. Ci vediamo lì».
Non attese la risposta. Accarezzò di nuovo la bimba, un lieve sorriso sul viso, e come un fulmine si diresse a grandi falcate alla scalinata di metallo.
Contemporaneamente, Dawe sparò una raffica di proiettili 7.62 verso gli aggressori. Non riuscì a colpire nuovamente l’autista, ma ottenne il risultato di far fermare la jeep. Trascorsero alcuni interminabili secondi, poi l’auto si mise di traverso e gli occupanti risposero al fuoco.
Ma era troppo tardi: nel frattempo Henkel aveva raggiunto il ballatoio che correva esterno, a dieci metri di altezza attorno all’edificio. Si infilò nella porta lasciata aperta dalla cinese e si ritrovò in un corridoio semibuio. Lo percorse tutto e, raggiunta un’altra rampa di scale, scese a capofitto, fermandosi davanti a una vetrata. Da lì si scorgeva l’interno dell’hangar, buio e con soltanto un tavolo operatorio al centro.
Si immobilizzò per un istante a osservare la scena: alcune ombre si muovevano attorno a Stella ma lei era in piedi. Stringeva un bisturi fra le mani e sembrava stesse minacciando uno dei medici. Solo che c’era un problema: dietro la sua fidanzata, Xiaochen si avvicinava minacciosa con una grossa siringa tra le dita.
Non ci pensò un istante. Imbracciò l’arma e spalancò la porta. «Ferma o sparo!», ingiunse, con il suo inconfondibile accento ceco.