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Base di ricerca Sito A, Nord dell’Iran. Ora locale 23:10.

-49:19:22 alla deadline.

 

Xiaochen Zhao era in piedi nel suo alloggio, al buio, gli occhi vigili fissi fuori dalla finestra.

La zona residenziale era collocata nella parte sud della base. Il nucleo centrale era formato da quattro palazzine prefabbricate di due piani, sistemate parallelamente e con un grande giardino nel mezzo. Poco distanti, su una collinetta, c’erano poi cinque villette unifamiliari destinate ai funzionari della NDRC e agli ufficiali più alti in grado.

Una di queste, con un bel viale davanti all’ingresso, grandi vetrate e un tetto d’ardesia, era occupata da lei.

I militari la chiamavano la Sangue misto, ma le riconoscevano grandi capacità imprenditoriali e organizzative. Una volta che il ministero le aveva affidato il progetto GenARTIF, era stata lei, in poco meno di sei mesi, a coordinare la costruzione della base. La sola Serra, l’imponente edificio che dominava la parte sud-est del grande complesso, aveva richiesto decine di voli speciali dalla Cina. Voli che avevano alimentato strane voci nelle intelligence occidentali, sempre impegnate a scovare armi di distruzione di massa… anche dove non ce n’erano.

Xiaochen, però, aveva rispettato i tempi e soprattutto il budget, fissato a poco meno di settecento milioni di dollari.

Alzò lo sguardo verso la pista d’atterraggio. I lavori di ripristino procedevano a ritmo serrato, ventiquattr’ore su ventiquattro. Si vedevano le fotoelettriche accese e la striscia d’asfalto che baluginava nella notte. Alcuni camion si muovevano lentamente e una gru stava sollevando alcune travi.

Il terremoto aveva creato non pochi problemi. Il fatto che l’aeroporto privato fosse rimasto inservibile per alcuni giorni li aveva costretti ad affidarsi alle autorità iraniane. Con il rischio, oltretutto, che la CIA – che negli ultimi tempi aveva cominciato a interessarsi un po’ troppo alla GenARTIF – si insospettisse. Il ripristino, però, era ormai prossimo.

«Avevi delle novità?», chiese ad alta voce, rivolta all’uomo che era immobile dietro di lei.

Herman Van Buuren fece un passo in avanti uscendo dal cono d’ombra e sorrise. «Forse ci siamo!», esordì, orgoglioso. «Sembra ci sia un inizio di attivazione di telomerasi».

Xia si voltò. La luce artificiale proveniente dalla finestra evidenziò la sua silhouette scultorea. Gli occhi risaltavano come quelli di un gatto nella notte.

Quell’uomo le piaceva, era inutile negarlo. Stava mettendo anima e corpo nel progetto e le sue teorie erano affascinanti.

Prima di raggiungere il vertice della NDRC – la Commissione Nazionale per lo Sviluppo e le Riforme – Xia non aveva mai sentito parlare di RNA, DNA polimerasi o di ribonucleoproteina. Ma Van Buuren, il migliore in quel settore, era stato estremamente convincente.

«La carne uccide», le aveva detto la prima volta che si erano visti, in una steak house di Pechino. «Non ce ne rendiamo conto, ma le nostre scelte alimentari hanno un enorme impatto sulla salute».

Xiaochen gli aveva sorriso. Prima di incontrarlo si era documentata sul cosiddetto China Study, un progetto nato negli anni Ottanta che metteva in relazione il cibo alle malattie contratte durante la vita.

«Secondo gli americani, nei prossimi anni il quarantasette percento degli uomini e il trentotto delle donne si ammalerà di cancro». Van Buuren aveva fatto una pausa, per dar modo alla funzionaria del ministero di comprendere le sue parole. «Un quarto morirà. E queste percentuali raddoppieranno entro il 2060. Si tratta di una vera e propria epidemia che colpisce soprattutto i Paesi occidentali».

«Il mio governo è preoccupato», l’aveva interrotto lei. «Con uno stile di vita sempre più consumistico l’epidemia si diffonderà anche da noi!».

Van Buuren aveva annuito, un sorriso sardonico dipinto sul volto. «Sa che in passato i nostri antenati erano pressoché vegetariani?», aveva poi cambiato discorso, fissando la grossa bistecca nel piatto della donna. «Già nel 7000 avanti Cristo gli induisti proibivano l’uso della carne e anche egiziani ed ebrei mangiavano soprattutto pane e derivati».

«Il nostro progetto lo conosce», aveva tagliato corto lei. Poi aveva sospirato e aveva lasciato cadere nel piatto la forchetta con un boccone di manzo alla griglia. «Mi dica solo se a suo parere è realizzabile!».

 

Un anno dopo, i due erano l’uno di fronte all’altra, all’interno di una futuristica base chiamata Sito A.

«Qual è l’ospite che ha dato segnali positivi?», domandò la cinese, incrociando le braccia.

«Uno dei nuovi arrivati», replicò lo scienziato, mostrando gli incisivi in un tiepido sorriso. «Il 45».

«La nostra fuggitiva… Stella Rosati». Xiaochen si avvicinò alla parete, accarezzò nella penombra un antico rotolo datato 1206 e infine si voltò verso Van Buuren. «Dopotutto è stato un buon investimento allora… E il suo fidanzato, a che punto è con la ricerca?»

«Non siamo più riusciti a contattarlo telefonicamente, ma il localizzatore ci dice costantemente dov’è!».

«Riuscirà a darci quello che vogliamo?»

«Sono ottimista… gli abbiamo fornito il giusto incentivo». Sorrise appena. «Ci sarebbe poi un’ultima cosa…».

«I pezzenti accampati fuori», lo interruppe lei. «Sono stata informata. Stanno diventando troppo insistenti».

Van Buuren annuì senza dire nulla e attese che Xiaochen decidesse cosa fare. Non si sarebbe stupito se avesse ordinato di aprire il fuoco su quella gente. Ma non successe.

«Facciamo così. Domani fatene entrare uno. Vediamo se possiamo convincerli ad andarsene».

 

Contemporaneamente, un malandato pick-up Nissan si fermò nei pressi dell’ingresso ovest della base.

Una cinquantina di persone era accampata lì fuori da diversi giorni.

«Hai parlato con il tuo uomo?», disse, sottovoce, l’autista. Si chiamava Massoud e aveva poco più di una quarantina d’anni. A causa dei capelli già bianchi, degli occhi scavati e della folta barba in disordine, ne dimostrava però molti di più.

Era già stato lì, quella stessa mattina. Era lui che aveva fatto da guida a un convoglio di Toyota partito dal vecchio aeroporto militare di Adji Chay. Grazie alla sua conoscenza della zona, quei militari avevano anche ritrovato la ragazza fuggitiva.

«Sì. Ci aiuterà!». La donna che gli si parò davanti, coperta da un burqa scuro, annuì vigorosamente con la testa. «Abbi fede in Allah. Presto le cose si sistemeranno!».