41
Venezia. 10:10.
E.C. attraversò il ponte della Paglia con lo sguardo fisso verso l’isola di San Giorgio Maggiore immersa nella nebbia.
Cadeva una pioggerellina fine come polvere e le nuvole basse e bianche sulla laguna sembravano un muro invalicabile.
Di fronte a lui alcune gondole ormeggiate nei pressi di San Zaccaria ondeggiavano schiaffeggiate dalle onde; poco distante, alcuni turisti incuranti del maltempo si dirigevano rumorosamente verso piazza San Marco, alle sue spalle.
E.C. sorrise tra sé. A differenza dei suoi concittadini, che mal tolleravano quelle folle di curiosi in ogni periodo dell’anno, a lui tutto quel movimento piaceva. Amava sapere che di giorno come di notte, d’estate come d’inverno, quando camminava per le strette calli del sestiere di Castello non era solo.
Per lui si trattava di un normale contrappeso, visto che a causa, o per merito del suo giuramento, non aveva potuto condividere la sua esistenza con nessuno.
Come tutti i Cavalieri Guardiani di Pace aveva promesso totale obbedienza alla Chiesa con un giuramento di sangue. Tale voto lo aveva impegnato per l’intera vita: se l’istituzione era ancora in piedi, si ripeteva spesso, il merito era in gran parte suo. Negli ultimi cinquant’anni infatti i Cavalieri di Malta – che avevano di fatto ereditato le ricchezze dei Templari – avevano rischiato più volte di essere soppressi.
Alcuni avevano sostenuto che l’ordine fosse il braccio armato del Vaticano. Secondo papa Pio XII erano addirittura la longa manus della massoneria nella Chiesa. Alla fine degli anni Settanta, Giovanni Paolo I, conoscendo gli stretti rapporti tra i Cavalieri e la Banca Vaticana, aveva anche provato a sciogliere l’ordine.
Ma il pontefice morì in circostanze misteriose soltanto trentatré giorni dopo la sua elezione e i vertici dello IOR, esattamente come gli Ospitalieri, si salvarono. In seguito, soprattutto grazie a E.C. e ai suoi rapporti con la finanza, le cose cambiarono e con il nuovo papa i Cavalieri tornarono ad assumere un ruolo di primo piano.
Dalla chiesa templare di San Giovanni Battista in Bragora, poco distante da piazza San Marco, adesso gestivano un impero economico degno di una nazione.
Quando E.C. ripensava agli ultimi anni spesso sorrideva. Era vero, la sua esistenza era stata vissuta all’insegna della solitudine, dedita solo all’Ordine, ma dal nulla era diventato ciò che era: l’uomo a cui si chiedevano cose che ufficialmente non potevano essere fatte. L’eminenza grigia del Vaticano.
La sua fortuna era cominciata durante la guerra quando, nonostante avesse soltanto la licenza elementare, era diventato impiegato del GUF, il Gruppo universitario fascista.
Grazie a quell’incarico, nell’estate del 1942, come spia del Servizio Informazioni Militare, gli era stato chiesto di requisire il tesoro di re Pietro II di Jugoslavia. Si trattava di sessantuno tonnellate d’oro, di monete antiche, di vari milioni di dollari e sterline, che lui si era occupato di portare in Italia.
Dopo la guerra, quando l’oro era stato restituito, era emerso però un grosso ammanco di venti tonnellate. I maligni sostennero fossero state trasferite all’interno delle mura leonine e anche se E.C. non lo aveva mai confermato, da quel momento i suoi rapporti con lo IOR si erano fatti più intensi. Da allora, le sue quotazioni erano salite sempre più fino a farlo arrivare al grado più alto dell’Ordine… Quello che gli dava diritto all’anello con la croce rossa che portava con orgoglio.
«Bentornato», gli disse uno scheletro che lo attendeva alla porta, su campo Bandiera e Moro battuto da un vento siderale. «C’è un ospite… Il prefetto degli Archivi Segreti».
E.C. lo guardò ma non parve troppo stupito.
Entrò nella chiesa, attraversò in silenzio la navata centrale e si infilò nell’antica biblioteca, illuminata da un grande camino scoppiettante. C’era odore d’incenso e un’atmosfera da eruditi.
«È un piacere incontrarla di persona, eccellenza», sibilò, fissando il religioso.
Raniero Savelli non si voltò e continuò a esaminare l’antica pergamena sulla scrivania. Era il famoso Sex dierum iter, un documento templare risalente al 1217, in cui veniva menzionata una spedizione di ottanta cavalieri in Islanda. Anche grazie a quel documento, diversi mesi prima, erano stati ritrovati i rotoli.
«Come procedono le ricerche?», borbottò poi Savelli, alzando lo sguardo lugubre. Era molto più basso di E.C. e il riporto brillantinato sulla fronte lo faceva sembrare un attore anni Venti.
«Ce ne stiamo occupando», replicò asciutto l’anziano. «Esattamente come le ho detto due giorni fa al telefono».
«Non le mentirò, Gran Maestro. Sono preoccupato». Il prefetto sospirò appena, incerto se proseguire. Era stato lui a chiedere l’aiuto di quell’uomo, ma adesso non era più del tutto convinto che fosse stata la scelta giusta. «Ha saputo di Andreas Henkel? È entrato in casa mia e mi ha minacciato!».
E.C. annuì, il viso impassibile come una maschera di cera.
«È un uomo pericoloso. Ed è pericoloso che si interessi della questione…», rincarò la dose il prefetto.
«L’agente Dawe è riuscito a capire per chi sta lavorando?», chiese, in tono paterno.
«Di sicuro non per noi!», lo sferzò Savelli, stizzito. Poi fece una pausa per esaminare una reazione di E.C., che però non arrivò. «Parliamoci chiaro…», continuò. «Devo essere sicuro che voi siate in grado di ritrovare i rotoli. Se la questione Henkel è indice di come lavorate, non abbiamo di che stare allegri. Avevo chiesto che fosse eliminato e invece se ne va in giro per Gerusalemme a fare domande!».
“Sa di Gerusalemme?”. Il Gran Maestro sospirò, come fosse costretto a rispondere a quelle parole con qualcosa che avrebbe preferito tenere per sé. «Senta, Raniero», cominciò con calma. «È stato lei a chiedere il nostro aiuto. Prima con quella spedizione in Islanda e poi, pochi giorni fa, con la storia dell’asta. Diceva che sarebbe riuscito ad aggiudicarsi i rotoli…».
Il prefetto apparve risentito. Si domandò perfino se quell’uomo fosse davvero sincero o se invece stesse cercando, in qualche modo, di fregarlo. Era possibile che Henkel lavorasse addirittura per lui?
«…e sappiamo tutti com’è andata a finire», concluse l’anziano con un sorriso vacuo. «Qualcuno ha semplicemente fatto ciò che andava fatto. Quello che noi avremmo dovuto fare… ma non si preoccupi, risolveremo il problema».
Poco dopo, quando Raniero Savelli fu uscito di scena, il Gran Maestro afferrò il cellulare e compose il numero del Toro.
«Il prefetto comincia a fare troppe domande», osservò. «Lascia perdere Henkel, almeno per adesso. Prosegui con il piano, prima che sia troppo tardi!».
«Dopo Atene sarà finita per sempre?», fu la risposta, sorprendentemente incerta, dall’altro capo del telefono.
«Potrebbe… se non commettiamo errori». Poi tornò a guardare l’antico documento templare sulla sua scrivania. Ignorare il suo significato per tanto tempo era stato il suo errore più grosso. Era stato a causa di quella pergamena, rinvenuta negli archivi dell’ordine pochi mesi prima, che tutto aveva avuto inizio.
“Ab ora Britannica sex dierum iter – sei giorni di mare dall’Inghilterra”, lesse fra sé.